Centrodestra, futuro e i dubbi di Bondi

La lettera di Sandro Bondi è cosa seria, che non può lasciare indifferenti. La sua analisi sulla storia di Forza Italia è certamente impietosa, sebbene non difetti di quella dose di realismo che è sempre salutare in politica. Molti accuseranno Bondi di essersi ricordato un po’ tardi a sollevare critiche. Contestare oggi alla maggiore forza d’opposizione di aver tradito la propria missione è indubbiamente ingeneroso, tuttavia restituisce un’immagine autentica di cosa sia adesso il partito Forza Italia, al netto dell’ascendente carismatico del suo leader. Magari, prima di crocifiggerlo, chiediamoci se la sua analisi non trovi rispondenza in precedenti considerazioni sviluppate dallo stesso Silvio Berlusconi.

La quota rilevante del suo ragionamento si attesta sulla certificazione di un fallimento. Il centrodestra, per Bondi, avrebbe mancato i suoi obiettivi qualificativi a causa dell’ostruzionismo causato da una serie di alleati minori che avrebbero condizionato l’azione politica del leader. Il problema è in questo delicatissimo passaggio. Bondi non dice nulla di più di quanto da tempo vada sostenendo lo stesso Berlusconi. Il Cavaliere ha spiegato il sostanziale fallimento della sua esperienza di Governo paragonandosi a un Gulliver reso inoffensivo dai legacci sottili, ma resistenti, con i quali un popolo di lillipuziani lo avrebbe costretto al suolo negandogli libertà di movimento. “Non ho fatto ciò che avevo in mente di fare perché i piccoli partiti miei alleati me lo hanno impedito”, sarebbe stata la giustificazione dell’ex Premier. In realtà quelli che egli considera gli alleati minori, i lillipuziani della favola di Gulliver, incarnano l’idea di una contrapposizione insanabile non tra uomini in carne e ossa, sebbene vi sia stata anche quella, quanto tra idee, tra correnti di pensiero, tra paradigmi etici, tra modelli socio-economici troppo distanti tra loro da consentire di innescare quel processo di sintesi che trasforma la proposta politica in azione di Governo. Negli anni della “Seconda Repubblica”, a destra, è stato fatto cartello per provare a vincere le competizioni elettorali, ma non è stata fatta sintesi tra tutte le anime che a quel “rassemblement” hanno preso parte, per riuscire a governare la trasformazione del Paese.

La circostanza che lo stesso Berlusconi si sia sempre definito fieramente un imprenditore-non-politico, ne ha paradossalmente evidenziato il limite strutturale nell’impossibilità, nonostante la sua indiscussa attitudine comunicativa, a corrispondere a un’istanza di ricomposizione culturale avvertita a vari livelli di consapevolezza dal blocco sociale di riferimento della destra politica. Le parole di Bondi alimentano il sospetto che, in fondo, la prospettiva di un’articolazione del pensiero di destra non fosse tra le priorità di una classe dirigente che, invece, avrebbe avuto altro nel proprio orizzonte visivo.

Il centrodestra ha accusato il centrosinistra di essere totalmente sottomesso all’ideologia comunista che sarebbe sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino, benché mimentizzata sotto altre forme comunicative. L’avvento di Matteo Renzi, o meglio, l’affermarsi della sincope renziana all’interno del mondo della sinistra avrebbe determinato, nell’analisi di una parte dei dirigenti dell’ex Popolo della Libertà, la crisi di quell’humus marxista che mai si sarebbe sinceramente affrancato dai suoi territori d’origine. Da Enrico Berlinguer in poi, una volta ridefinita la strategia messa a punto da Palmiro Togliatti nella costruzione del potere, la sinistra ha posto al centro dell’azione politica la questione dell’egemonia nella regolazione delle meccaniche statuali, reinterpretandola secondo la declinazione gramsciana. Fino a Renzi, quindi, la sinistra avrebbe tenuto ferma la sua idea-guida di riconoscersi portatrice di “una nuova e superiore civiltà” fondata su di una riconfigurata disciplina delle forze produttive.

Per Bondi, il successo del “blairismo”all’italiana, rappresentato dal giovane leader fiorentino, sarebbe la prova di una frattura epocale consumatasi all’interno del Pd, tra vecchi e nuovi schemi di riposizionamento strategico. L’appello, dunque, a sostenere l’azione di Renzi lascerebbe intendere che, nella visione prospettica di Bondi, la fine di una certa sinistra farebbe cessare l’esigenza di tenere in piedi una certa destra. Si tratterebbe di riconoscere che l’esperienza dell’acquartieramento dei moderati nel campo del centrodestra sarebbe stato necessitato dalla presenza, sul fronte opposto, di un “nemico di classe” venuto meno il quale sarebbe possibile (è l’ipotesi sottintesa da Bondi) la costruzione di una mega area centrale nella quale far confluire tutte le correnti del moderatismo politico italiano.

Se la questione dovesse essere questa, non potremmo che essere grati a Bondi per averla portata alla luce del sole. La domanda è se il costrutto logico bondiano abbia o meno un senso. Per essere più chiari: se la destra abbia un futuro a prescindere dalla svolta culturale imposta da Renzi alla sua parte. Può esistere una destra liberale, laica e garantista che non faccia soltanto delle pregiudiziali di carattere etico-religioso, il vero discrimine rispetto all’altra parte? Nella visione bondiana, sembra di capire che l’alternativa ideologico-culturale a Renzi sarà la destra integralista alla Giovanardi, o non sarà.

La lettera di Bondi ci interroga su questo decisivo punto. E ciò è buona cosa. Resta però il fatto che il tentativo, per quanto legittimo, di segnare una strada per il centrodestra, partendo dall’autocritica per gli errori del passato, non possa spingersi fino al punto di trasformare un ipotetico “revisionismo liberale” in un annullamento di un’offerta politica articolata che accompagna e sostiene una visione di destra del futuro delle relazioni tra gruppi e classi sociali all’interno di una società a capitalismo maturo, nel tempo storico della postmodernità.

Per qualcuno può anche essere stato uno shock leggere dell’infausta “sentenza” pronuciata dal “mite” Bondi, tuttavia non v’è dubbio che essa rompa antichi tabù invitando tutti, nessuno escluso, a riflettere seriamente sull’avvenire politico del centrodestra. Non si abbia, perciò, timore nel pronunciare la fatidica espressione del “dopo Berlusconi”. Se, invece, la patologia diagnosticata si conferma nell’incapacità di fare sintesi delle diverse proposte che emergono dalla stessa parte del campo, allora appare perfino stucchevole accapigliarsi per l’ipotetica leadership della destra che verrà. Non saranno certo le sfide tra improbabili personaggi in cerca d’autore, in elezioni primarie pirandelliane, a ridare forza e vigore a una parte politica la cui capacità propulsiva appare, al momento, dimidiata. Sarebbe auspicabile una stagione di confronto interno per l’identificazione di alcuni punti programmatici omogenei sui quali ricostruire l’identità finale della destra. Per fare ciò è necessario che ci si confronti, o meglio, si ingaggi una sfida tra differenti modelli ideologici da offrire al giudizio del popolo del centrodestra. Sarebbe una gran cosa se si combinassero le “Primarie delle idee”. Solo allora si potrebbe cominciare a costruire un “Renzi di destra” che abbia un profilo di leader realmente in sintonia con la sua gente.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:19