Legge di stabilità o legge di immobilità?

giovedì 17 ottobre 2013


L’Italia è sopravvissuta al “Decreto del Fare”, a “Destinazione Italia”, al “ddl Lavoro-Iva”; adesso non poteva non arrivare la Legge di Stabilità del valore virtuale di 10/12 miliardi, ennesima supercazzoLetta ad uso e consumo del “pueblo”. Non commetteremo l’errore di commentare il provvedimento nei particolari, perché la tecnica è sempre la stessa: nome altisonante, indiscrezioni fatte trapelare ad arte, bozze smentite numerose volte, varo di un documento che contiene mere dichiarazioni di intenti, et voilà, problema rimandato, addormentato, scomparso per indolenza del problem-solver, non risolto ma battuto ai punti, estinto per sfinimento.

 In perfetto stile democristiano, Letta non si sporca mai le mani, schiva le difficoltà, prende tempo, aspetta che i problemi perdano di attualità e, se è proprio necessario, li tampona a suon di tasse. Il risultato del tirare a campare è che del suo non essere Premier non potrai mai dirne male, ma in compenso la massaia di Reggio Calabria si farà un buon concetto di quel bravo ragazzotto con l’aria da sgobbone che parla di buoni sentimenti, di giovani, di difficoltà della Nazione, di sofferenze delle imprese, di lavoratori, come se non fossimo tutti consci dei problemi del Paese e come se non attendessimo dalla politica giustappunto le soluzioni.

Ma lui, il bravo ragazzo, non fa una piega: snocciola le problematiche come se le avesse scoperte un minuto prima e, come una lucertola, si mimetizza dietro di esse sperando di non essere stanato. Generalmente poi, i tagli e i fondi stanziati sono sempre virtuali mentre le tasse sono sempre certe e immediatamente esigibili. Anche la legge in questione non fa eccezione: se da un lato si discute tanto dei tagli vari ed eventuali alla sanità, fa sorridere il famoso allentamento del patto di stabilità per i Comuni cui corrisponde un inasprimento dei tetti di spesa per le Regioni in perfetto stile “gioco delle tre carte”.

Come in ogni provvedimento che si rispetti, c’è sempre l’annuncio demagogico della “tassa Sherwood” sulle pensioni d’oro per rifinanziare (virtualmente e per l’ennesima volta scarsamente) la cassa integrazione o piuttosto per fare l’elemosina ai pensionati, categoria a cui non si rivaluta la pensione ma in compenso si fornisce la social card. Come si diceva prima, l’unica cosa certa sono le tasse: sparisce l’Imu e arrivano Trise, Tari e Tasi ma non ci stupiremmo se la Cgia di Mestre ci venisse a dire domani che, a conti fatti, forse sarebbe stato meglio tenerci la vecchia e cara gabella sulla casa. Non vorremmo che dopo il danno ci fosse la beffa consistente nel dover passare per fessi e fingere che l’attuale dazio sulla casa non sia quello precedente mascherato con un nome di fantasia e potenziato nei suoi più antipatici e distorsivi effetti.

No, per carità non è la stessa imposta che qualcuno in pompa magna diceva di aver abolito e non è nemmeno un “bubu-settete” fiscale che offende l’intelligenza degli italiani, no, giammai. Poi capita anche che per fare una cosa meritoria, come la mini riduzione del cuneo fiscale, se ne faccia una cattiva come l’inasprimento delle aliquote gravanti sulle rendite finanziarie che, dal 2011 a oggi, è raddoppiata passando dal 12,5% al 22%; il tutto per dare una mancetta ai lavoratori dipendenti che, nella migliore delle ipotesi, potranno dire che uno dei caffè presi giornalmente in ufficio alla macchinetta glielo offre generosamente lo Stato italiano con il provvedimento sul cuneo fiscale.

Bando alle ciance e diciamocelo a brutto muso che lo Stato maschera sotto nomi gentili e provvedimenti apparentemente fatti per la gente, un famelico bisogno di soldi. Vivere in Italia è come avere un figlio tossico che ti chiede continuamente denaro perché non riesce a frenare il vizio di spendere senza ritegno né moralità. E per fare questo ricorre a mezzucci beceri come presumere i tuoi redditi, chiederti un anticipo del 110% sulle tasse dell’anno successivo, tassare i ricavi e non gli utili, ricorrere alla retroattività, ammazzare le imprese creditrici (in Italia abbiamo imprese che muoiono per crediti e non per debiti), eliminare servizi e non sprechi scaricando l’onere sull’utente finale e non sulla distorsione perversa della spesa pubblica.

Senza scomodare la curva di Laffer o la Teoria del controllo di Ashby, è ormai chiaro che lo Stato deve arretrare, ridurre la propria invasività, ridurre le proprie spese e contestualmente la pressione fiscale. Ha ragione il professor Antonio Martino quando dice: “Fuori dai paradossi, i politici devono capire che si possono avere solo due di queste tre cose: si può avere una crescita economica e il pareggio del bilancio se la spesa pubblica è inferiore almeno al 35 per cento del pil, oppure si può avere il pareggio del bilancio e la spesa pubblica al 55 per cento del pil come accade da noi in Italia… ma in questo caso non si ha la crescita economica... tertium non datur…”. Ecco appunto, tertium non datur.


di Vito Massimano