Maxi-licenziamenti nelle Hi-Tech Usa

Le società big dell’Hi-Tech americane sono state tradite dalla pubblicità. O meglio dalla crisi economica che ha investito le aziende Usa. La conseguenza è una raffica di licenziamenti. Mai tanti come in questo mese di novembre. Il terremoto che ha colpito uno dei settori tecnologici più avanzati sposterà gli investimenti in altre direzioni e forse i lavoratori mandati a casa dai big dei prodotti web potranno essere riassorbiti in altre realtà. Lo choc è profondo. Si torna alle tensioni del periodo del crollo dei mutui sulle case che nel 2008 provocarono uno degli sconquassi economici mondiali più rilevanti dai tempi del crollo di Wall Street.

Lo slogan Usa degli imprenditori Usa degli ultimi decenni era “crescere”. Ma dopo anni di dominio dei giovani tycoon della Silicon Valley condizionati dalla spasmodica ricerca di massimizzare i guadagni l’America, frastornata anche dalle elezioni di Midterm (hanno perso sia il presidente in carica Joe Biden che il suo predecessore Donald Trump), si ritrova a fare i conti con il più vasto scenario di licenziamenti mai verificatosi.

I tagli hanno riguardato tutte le grandi società: Facebook, Microsoft, Intel, Twitter, Snap, Netflix, Coinbase. Per l’America tecnologica sta arrivando uno tsunami occupazionale annunciato dall’arrivo a Market Street di San Francisco dell’imprevedibile Elon Musk che per avere il controllo di Twitter ha sborsato 44 miliardi di dollari. Il nuovo padrone non ha fatto mistero di ricercare introiti diversi dalla pubblicità, facendo pagare agli utenti, star e inserzionisti l’utilizzo dei prodotti: 8 dollari al mese per la spunta blu che certifica l’identità dei titolari degli account. Il piano dei maxi-licenziamenti sta provocando una rivoluzione nell’organizzazione del lavoro delle società di Hi-Tech e sta ponendo una profonda riflessione socio-politica-economica. Il tema mai risolto è: le nuove multinazionali tecnologiche creano indubbiamente ricchezza, ma producono anche posti di lavoro?

Visto lo sviluppo dalla fondazione di Facebook da parte del giovanissimo Mark Zuckerberg nel 2004, all’onnipresente Google (da 32 a circa 150mila dipendenti) e ad Apple (da 60mila lavoratori di dieci anni fa a 154mila di oggi) si direbbe che i forti ricavi hanno favorito l’occupazione. Il brusco freno di queste settimane sta riportando la realtà su un piano preoccupante. L’annuncio che l’azienda californiana di Musk progetti una diminuzione del 50 per cento della sua forza lavoro, compresi 4 top manager, ha scosso l’intera comunità economica, anche perché Twitter ha avuto un massiccio calo dei ricavi, abbandonando ufficialmente Wall Street, per diventare un’impresa privata senza vincoli di Borsa.

Alcuni ex dipendenti si sono già rivolti al Tribunale di San Francisco per aver appreso il licenziamento via “mail” e senza il preavviso dei 60 giorni previsto dalla legge. Una delle maggiori agenzie di pubblicità, Igp, ha suggerito ai suoi clienti di sospendere le inserzioni su Twitter. E così hanno fatto alcuni personaggi dello spettacolo e dello sport. L’economia americana è abituata a massicci licenziamenti come avvenne alla Boing e nel settore dell’aviazione. La Apple prevede di produrre 3 milioni di IPhone in meno rispetto al target di 90 milioni, a causa dei ritardi nella fabbrica cinese di Foxconn. C’era una volta il boom dei social, ma prima la pandemia sanitaria e poi la crisi della pubblicità hanno inferto un duro colpo al loro sviluppo, considerato erroneamente inarrestabile. Le azioni Meta, dopo il licenziamento di 11mila dipendenti, sono crollate di oltre il 70 per cento.

Aggiornato il 11 novembre 2022 alle ore 13:31