Tra colossi proprio non ci si intende

venerdì 26 febbraio 2016


Lo dimostra l’ultima intervista rilasciata al “Financial Times” dal cofondatore di Microsoft, Bill Gates, in merito al mancato sblocco da parte della Apple dell’iPhone del killer di San Bernardino, che il 2 dicembre scorso, aprendo il fuoco contro la folla in un centro per disabili in California, causò la morte di 14 persone.

Tutto ebbe infatti inizio in seguito al ritrovamento, da parte dell’Fbi, di un iPhone 5c, appartenuto a Syed Rizwan Farook, uno dei due autori della strage. Quel giorno i Servizi segreti, dopo aver ottenuto da Apple i backup che il telefono fa automaticamente on-line, attraverso il servizio iCloud, scoprirono che i dati rilevati erano troppo recenti e non sufficienti per conoscere movimenti e attività dei due terroristi nelle settimane antecedenti all’attacco. Gli investigatori quindi, tramite un’ordinanza di un giudice, decisero di chiedere alla Apple, di creare una versione modificata ad hoc del loro sistema operativo, da poter installare su quel telefono per avere un accesso secondario al cellulare e consentire all’intelligence americana di criptarne i dati più recenti.

Ma Tim Cook, Ceo della Mela, in una lunga lettera ha subito declinato la richiesta, definendo la pretesa del governo americano “un esempio spaventoso di superamento dei limiti”, che creerebbe “un pericoloso precedente in grado di minacciare le libertà civili dei cittadini”.

“Si tratta di un caso specifico” – controbatte Gates – in cui il governo chiede di avere accesso a informazioni. Non stanno facendo una richiesta generale, questa riguarda un caso specifico”. Chiara la posizione del fondatore della Microsoft che, paragonando la richiesta a quella su uno specifico conto bancario, spiega: “Avere l’accesso ad uno non significa automaticamente avere accesso a tutti gli altri”.

Prima di lui nessuno aveva però osato prendere le parti dell’Fbi. Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook; Jack Dorsey, fondatore di Twitter; Sundar Pichai, amministratore delegato di Google, sono infatti solo alcuni dei nomi di chi, nei giorni scorsi, si è speso in difesa della decisione di Cook di non creare un software che consenta ai Servizi segreti di decriptare il telefono di Syed Rizwan Farook, come richiesto dal giudice federale.

Nei giorni successivi alla lettera, oltre alla solidarietà di tanti colossi, è inoltre emerso che a complicare la situazione è stata proprio la stessa Fbi. Pare infatti, che il telefono del terrorista, fosse un telefono “aziendale”, fornito quindi all’autore della strage dalla contea di San Bernardino per cui lavorava. L’Fbi, pensando di poter evitare di contattare la Apple e di poter recuperare tutti i dati da iCloud, avrebbe chiesto alla contea di resettare la password per il backup da remoto, cioè da un dispositivo diverso. Mossa davvero poco “intelligence” perché, quando la password viene modificata da un altro dispositivo, per effettuare successivi backup di dati più recenti, occorre inserire il codice che blocca la schermata iniziale e che conosce solo chi possiede il telefono. Non è inoltre possibile provare tutte le combinazioni perché, dopo un determinato numero di tentativi sbagliati, iOS blocca completamente l’accesso.

Intanto il Dipartimento di Giustizia (Doj),avrebbe emesso una mozione molto dura nei confronti di Apple, accusandola di aver assunto tale posizione per sole ragioni di marketing. Non resta che aspettare venerdì, giorno ultimo per l’azienda per presentare in tribunale le sue obiezioni all’ordinanza e per conoscere l’esito di questa vicenda senza precedenti.


di Maria Giulia Messina