Dal 7 ottobre dell’anno scorso è iniziato per Israele un percorso verso l’attraversamento diffuso di tutte le “linee rosse” tracciate sia da Oriente che da parte dell’Occidente. Sembrava che lo Stato ebraico avesse già varcato la “linea rossa” di Gaza quando ha iniziato a martellare a tappeto l’area, martoriando miliziani e popolazione civile, ma sappiamo che Hamas aveva “sdoganato” il concetto di aggressione dei civili ebrei e non solo, con l’uccisione e il rapimento di giovani e meno, intenti a cercare di condurre una “vita più normale possibile”. Poi l’orrore assoluto si è manifestato su Rafah, a fine maggio, una “linea rossa” tracciata dall’asse della resistenza, capeggiato dall’Iran, ma anche da una parte dell’Occidente, che Israele non avrebbe dovuto varcare, ma che ha oltrepassato scioltamente. Un campo profughi bombardato nel cuore della notte, in una zona definita sicura; sono morti atrocemente bambini e civili, ma tra di loro anche terroristi di Hamas che speravano di farsi scudo della disperata umanità li rifugiatasi. La comunità internazionale è rimasta sbalordita; pochi giorni prima una sentenza del Icj, Corte internazionale di giustizia, ordinava ad Israele di interrompere l’assalto a Rafah e ritirare le sue truppe da Gaza, oltre a presentare una richiesta di mandati di arresto per Benjamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, al Cpi, Corte penale internazionale. L’attacco a Rafah apparve come uno smacco agli ignorati diktat delle “autorità internazionale”.
Ma nel quadro di questo conflitto è usuale che i civili subiscano danni direttamente, o collocati con indifferenza nella categoria dei danni collaterali. Dopotutto, le accuse di crimini di guerra a carico delle forze israeliane sono in aumento, sebbene l’esame di queste imputazioni continui, si palesa l’incapacità del diritto internazionale umanitario sia di bloccare che di prevenire crimini contro l’umanità, tantomeno la forza teorica di proteggere i civili. Il tutto nel totale vuoto delle capacità delle organizzazioni internazionali, ma anche in prese di posizioni politiche quasi sempre discutibili.
Poi l’uccisione a Teheran, a fine luglio, del leader di Hamas Ismail Haniyeh. Un’operazione dei servizi segreti israeliani, che ha reso cosciente il governo iraniano, ma forse già lo era, quanto sia debole il sistema di sicurezza della Repubblica islamica. Una umiliazione cocente alla quale Ali Khamenei ha reagito dichiarando che a tempo debito ci sarebbe stata una rappresaglia devastante contro Israele. L’assassinio del capo di Hamas è avvenuto mentre era a Teheran, come rappresentante di Hamas, per l'insediamento del nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Azione considerata dai leader iraniani come un nuovo superamento di una “linea rossa” da parte dello Stato ebraico, anche questa calpestata senza il minimo condizionamento. A metà agosto nell’ambito del Congresso nazionale dei martiri della provincia di Kohgiluyeh e Boyer-Ahmad, e a due settimane dall’annichilimento di Haniyeh, la Guida suprema dell'Iran, dichiarò che: “La ritirata non tattica conduce all’ira di Dio”. Discorso fatto nel mezzo di speculazioni internazionali sulla possibile reazione dell'Iran. Quindi ad oggi la non reazione dell’Iran appare giustificata dalle parole di Khamenei con il termine “ritirata tattica”, quindi “appoggiata da Dio”.
Poi, l’azione di sabotaggio e blocco comunicazioni effettuata dal Mossad ed associati, sistema dei servizi segreti rinato nella immaginazione di massa dopo la sorprendente operazione dei cerca persone e delle ricetrasmittenti esplose nel sud del Libano, ha demarcato un ulteriore attraversamento dell’ennesima “linea rossa” da parte di Israele, tracciata questa volta dagli Hezbollah sciiti libanesi. Purtroppo diventati oggi la parte, anche politicamente, più rappresentativa del multi religioso Libano. È seguita venerdì scorso l’uccisione del sessantenne Ibrahim Aqil, uno dei vertici di Hezbollah, eliminazione avvenuta durante un attacco a Beirut definito come “mirato” dalle forze israeliane. Aqil “godeva” di una taglia di sette milioni di dollari offerta dagli Stati Uniti per aver capeggiato, negli anni Ottanta, il sequestro di ostaggi statunitensi e tedeschi in Libano e per il ruolo avuto nel bombardamento di una caserma dei marine americani a Beirut nel 1983.
Un'altra “linea rossa” attraversata da Israele. Ma ormai è evidente che per lo Stato ebraico le linee rosse non esistono, immaginabile anche conoscendo la sua storia; quindi è coscienza dei tracciatori di linee rosse, che è inutile annunciare il disegno di tali tratti purpurei, soprattutto sulla base di una guerra in atto ed in espansione. A questo punto possiamo considerare che le linee rosse che vengono tracciate dall’asse della resistenza sono soprattutto per se stessi.
Ma su quali blocchi strategici sono tracciate queste linee? Sicuramente, fino ad ora, la non reazione di Teheran è basata sulla sua cosiddetta “pazienza strategica”, finalizzata a proteggere quelle che considera le sue linee rosse, di valore assoluto o vitali, come gli impianti di petrolio e gas, l’economia, le dighe, i porti, ma anche la sua integrità territoriale e la sicurezza della Guida suprema. La “pazienza strategica” dell’Iran è incardinata al suo lavoro di rafforzamento delle capacità militari, intelligence, nucleari, tecnologiche ed economiche. Tutte capacità mantenute senza grandi o drastiche interruzioni. Quindi l’Iran ha risposto, a partire dall’inizio degli anni Novanta, alle ondate di sanzioni internazionali, agli attacchi ai suoi patrimoni e alle sue figure chiave, soprattutto in ambito dei programmi nucleari e missilistici.
Quindi Israele non vede le linee rosse da chiunque tracciate, mentre per l’Iran e “complici”, si disegnano linee rosse sempre più fitte, soprattutto delineate da se stessi. L’esortazione di Khamenei di tracciare linee rosse e di distruggere Israele è quindi pura propaganda, anche perché Israele non si può permettere di perdere nessuna guerra.
Aggiornato il 23 settembre 2024 alle ore 16:00