Erdogan e la guerra del grano

Il grano, ancor più del gas, è un’arma diplomatica nelle mani della Russia e nel Mar Nero si profila una guerra di logoramento, con tanto di schieramento di grandi potenze.

La fase del libero scambio di merci e capitali a livello globale, al pari del trasporto di persone a bassi prezzi e ovunque, è un ricordo, con un blocco reciproco alle catene di approvvigionamento globale. La Cina, che dimostra di vedere lungo, si è preparata alla guerra e soprattutto a un’economia di guerra e nell’ultimo anno ha velocizzato il disimpegno dal debito pubblico americano seppur in programma da anni. Altre potenze regionali come Turchia e Israele cercano con alterni equilibrismi e per ovvi motivi di non infastidire il gigante russo. Gli alleati occidentali, avendo progressivamente dimenticato l’uso della diplomazia, cercano di raffazzonare ingressi all’Ue o alla Nato alla disperata ricerca di altri alleati e millantano una disponibilità al dialogo in Nagorno-Karabakh.

Di rimpetto al Mare di Azov, Recep Tayyip Erdoğan ha registrato diverse vittorie diplomatiche e militari, in Africa e in Medio Oriente. La settimana scorsa, ha chiuso il grain deal facendo da garante tra i due schieramenti – al riscaldamento e ai chip ci si penserà dopo; magari dopo aver rivinto le elezioni in programma l’anno prossimo.

Del nuovo ruolo della Turchia ha parlato, con grande chiarezza, Carlo Marsili, ex ambasciatore italiano ad Ankara, durante la XIX edizione del workshop internazionale del think tank Il Nodo di Gordio, organizzato da Daniele Lazzeri a Baselga di Piné.

“Fra le tante stranezze che capita di leggere sulla Turchia, una è che sia un Paese isolato. Non è vero: solo nel marzo scorso c’è stata la visita del primo ministro israeliano, del presidente azero, del cancelliere tedesco, del ministro degli esteri armeno, del primo ministro olandese […] A luglio il terzo vertice italo-turco ha rilanciato in maniera importante le relazioni diplomatiche che si erano un po’ afflosciate nel corso del tempo. La seconda stranezza è che la Turchia sia antioccidentale e non sia un alleato affidabile. Non è vero, è un Paese che per via della sua geografia peculiare ha seguito un percorso di politica estera unico. Un Paese musulmano, membro della Nato, candidato all’Ue, che fa parte del Consiglio d’Europa, che fa parte del G20, che è il primo partner di numerosi Paesi africani, che ha una fortissima presenza in Somalia e così via avrà necessariamente interessi diversi e spesso non facili da conciliare”.

Dall’inizio della guerra, Erdogan […] si è posto come mediatore, convocando al foro di Antalya i presidenti russo e ucraino. L’operazione ha portato il 25 luglio alla firma di un accordo che riapre il traffico di navi ucraine cariche di grano. Un successo significativo”. L’accordo consta di due documenti, “uno firmato dalla parte turca e dalla parte russa e l’altro firmato dall’ucraina con i turchi. Per arrivare a questo accordo, la Turchia ha dovuto giocare un ruolo diplomatico che, secondo certa stampa, è stato ambiguo, ma che invece è stato prezioso. Da una parte ha condannato l’invasione russa in sede delle Nazioni Unite, ha fornito droni all’Ucraina, ha accolto numerosi rifugiati, ha attivato la convenzione di Montreux del ’36 sugli stretti in funzione limitativa, ma non ha applicato sanzioni e ha continuato il dialogo politico con Mosca […]”.

Toccando un punto controverso, sempre Marsili ha detto: per quanto riguarda il veto turco a ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, la Svezia – sostengono i turchi – ospita il quartier generale del Pkk, organizzazione che ha come obiettivo la divisione dello Stato turco attraverso la creazione di un nuovo Stato curdo, ad oggi mai esistito. Obiettivo totalmente opposto a quello della Nato.

Erdogan tratta da una settimana per la stesura delle standard operating procedures della base logistica messa a punto sugli stretti dai turchi per guidare le navi lungo percorsi minati dagli ucraini stessi, tra il timore russo che i corridoi vengano utilizzati per importare armi e le accuse ucraine di carichi siriani di grano rubati, avvistati in Libano. Ma nell’ultima settimana si sono registrati i contraccolpi economici della tensione: l’Egitto ha ritirato un ordine di 240mila tonnellate di grano ucraino, un nuovo peggioramento nei rapporti, e adesso la guerra sta debordando anche sul fronte georgiano, un vicino di casa e partner turco.

E la situazione negli ultimi giorni in Georgia sta rapidamente deteriorando, allargando il campo dello scontro. Negli accordi bilaterali dell’ultimo anno una regola generale è sempre stata quella di considerare gli argomenti uno per volta, ma questo potrebbe non essere possibile. Nell’ultimo mese c’erano già state delle tensioni con l’ambasciatrice americana, accusata di voler fomentare una guerra nel Paese. In effetti, l’apertura di un eventuale secondo fronte sarebbe particolarmente nociva per Mosca ma la popolazione georgiana non sembra essere convinta. Una settimana fa, si erano riempite le piazze di manifestazioni per la visita di una delegazione del Parlamento europeo a Tbilisi che avrebbe incoraggiato l’ingresso del Paese nell’Unione. Nel frattempo, pochi giorni fa è stato pubblicato un accordo risalente al mondo ante 24 febbraio ovvero di gennaio fra Russia e Georgia: una parte di costa dell’Abkhazia andrà ai russi.

Erdogan è stato molto abile a gestire la neutralità di un Paese con un piede in Europa e uno in Asia, un alleato occidentale unico, che ha allargato le sue intese talmente tanto da poter negoziare con chiunque, spesso alle proprie condizioni. Si aggiungano le molteplici infrastrutture completate negli anni tanto da diventare un hub per gli idrocarburi.

L’Europa e l’America, invece, hanno preparato il resto del mondo a organizzarsi, ma senza costruire un’alternativa alle relazioni bruciate nel corso del tempo. My way, or the highway, hanno detto al mondo negli ultimi anni; la seconda ha le risorse per farlo, la prima no. Erdogan si è mosso in fretta, è tornato in Georgia e ha rinnovato un accordo commerciale per 3 miliardi.

La politica non attende più i tempi della giustizia internazionale, e la diplomazia è un lavoro su cui si rimane indietro facilmente. Lo dimostra il processo Armenia v. Azerbaijan, aperto alla Corte Internazionale di Giustizia dopo 9 mesi di accuse reciproche di genocidio, che nel frattempo è stato dichiarato “risolto” con la ripresa del conflitto in Nagorno-Karabakh. Anche lì, Erdogan ha messo e mosso le sue pedine.

Aggiornato il 04 agosto 2022 alle ore 10:53