L’Afghanistan insegna: non lasciare il Sahel

Trarre dalla Storia insegnamenti è uno dei “motti” che vengono maggiormente riesumati quando si presentano crisi internazionali. La locuzione latina “historia magistra vitae” campeggia spesso nelle pompose disquisizioni di sedicenti “cultori della materia”, che forse credono alla ciclicità dei “percorsi” storici. Se può essere vero (con notevoli dubbi) che la Storia è ciclica, sicuramente è certo che la “memoria” umana è corta e che è immutabile il comportamento umano in particolari eventi. Così la strategicamente confusa ritirata di Joe Biden dall’Afghanistan (similmente a quella, non confusa, di Donald Trump dall’area curda in Siria nell’ottobre 2019), adesso viene presa in esame dalla diplomazia internazionale come “ciclicità storica”, e quindi come “maestra” di esperienza per il programmato disimpegno francese dal Mali e dal Sahel occidentale. Infatti, ora, nel Sahel si assiste a un ridispiegamento delle forze militari francesi nella lotta anti-jihadista.

La vittoria dei talebani ha già stimolato più di una reazione in Africa: per esempio la opinabile fine dell’operazione Barkhane, annunciata da Emmanuel Macron a giugno, si è politicamente complicata a causa dalla “questione afghana” e dal ruolo che i talebani stanno costruendosi a livello sia locale che internazionale. Al momento nell’area del Mali e del Sahel occidentale, secondo lo Stato Maggiore francese, le articolate forze militari francesi e le collaborazioni con gli eserciti autoctoni sono in fase di riorganizzazione. In pratica, quello che si sta verificando nell’area sub-sahariana è l’ennesimo paradosso geo-strategico in questo caso francese che, mentre annuncia la “fine” dell’operazione Barkhane nel Sahel, riparte con un nuovo ridispiegamento delle forze transalpine in Mali e nei Paesi limitrofi, con la previsione di incrementare le unità combattenti.

La considerazione che va fatta è che l’applicazione della decisione presa da Emmanuel Macron a giugno si trova oggi ad agire in un contesto per ora solo “emotivamente diverso”, e soprattutto più incerto che mai. La fine dell’operazione Barkhane rischia, infatti, di apparire fuori tempo, alla luce della possibilità che i movimenti jihadisti locali potrebbero essere potenziati dalla vittoria dei talebani e dalle notevoli risorse, sicuramente investibili dall’Emirato islamico dell’Afghanistan nel Sahel.

Giovedì sera, 16 settembre, a Parigi il tema è stato al centro di un programmato incontro tra il presidente francese e il cancelliere tedesco, Angela Merkel. Risulta che i due leader abbiano fatto il punto della situazione in Afghanistan e anche nell’area saheliana, ricordando che i tedeschi, ufficialmente, sono solo minimamente impegnati nel Sahel e soprattutto con mansioni di addestramento. Fonti dell’Eliseo hanno assicurato che “Garanzie sono state date sia a Berlino come a tutti i nostri partner europei”. Poi si sottolinea che vengono comprese le differenze tra le due situazioni e che “la lezione da trarre dall’Afghanistan è non ritirarsi dal Mali”.

È tuttavia evidente che gli interventi francesi in Mali non hanno mai previsto di ricostruirne lo Stato, tra l’altro ulteriormente indebolito da un recente golpe, mentre in Afghanistan la volontà di costruire uno Stato è fallita. In Mali i soldati francesi si stanno concentrando quasi esclusivamente sulla lotta al terrorismo, non dimenticando il recente successo delle forze speciali transalpine, che hanno annunciato, nella notte tra mercoledì e giovedì, che era stato ucciso Adnan Abu Walid al-Sahrawi, un leader dell’organizzazione dello Stato islamico nel Grande Sahara (Eigs), che dal 2015 si era autoproclamato Emiro del ramo saheliano dello Stato Islamico.

Va comunque considerato che il contesto del Mali non è paragonabile a quello dell’Afghanistan, anche se i jihadisti saheliani hanno gioito per la vittoria dei talebani. L’operazione Barkhane, lanciata nel 2014, avrà sicuramente ancora lunga vita: i francesi non parlano più di un ritiro, totale o definitivo. Questo “ridispiegamento” è stato preparato con “trame” verticistiche, anche se dettate dall’emergenza e conta il più possibile sulla crescita dell’impegno di diversi partner: i Paesi del G5 Sahel, la missione Minusma delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali e la missione Takuba, alleanza delle forze speciali fornite da diversi Paesi europei.

Tuttavia, i dubbi restano sulla effettiva efficacia di questa riorganizzazione francese anti-jihadista nel Sahel, che solleva costanti interrogativi in vari ambiti internazionali, mantenendo comunque in “memoria” la Storia dell’attuale Afghanistan, dove viene applicata la sharia dai talebani di chiara impronta Deobandi. Intanto in Mali il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) dei golpisti ha adottato, con 99 voti favorevoli, 2 contrari e 2 astenuti, due leggi di amnistia, ordinanti che “non si possono perseguire i responsabili dei reati di cospirazione militare”, nella fattispecie per i colpi di Stato dell’agosto 2020 contro il presidente Ibrahim Boubacar Keïta e poi del maggio 2021 contro il presidente di transizione, Bah Ndaw. Non tutti i golpisti sono uguali.

Aggiornato il 20 settembre 2021 alle ore 10:37