Sahel: il fallimento della cooperazione internazionale

In Africa oggi sono evidenti i risultati di molti fallimenti di matrice occidentale, tra questi le cooperazioni internazionali detengono la maggioranza, ma allo stesso tempo emergono anche i successi delle neo-cooperazioni di matrice orientale. Non possiamo non annoverare tra i fallimenti di matrice occidentale quelli che hanno interessato l’area sub Sahariana in particolare la “striscia” del Sahel. La crisi politica, economica e sociale di questa regione sta rivelando l’inadeguatezza e l’obsolescenza degli strumenti di cooperazione internazionale, i quali manifestano tutta la loro inefficacia solo osservando i dati di questi ultimi otto anni. Infatti dal 2012, data dell’inizio dell’impegno della comunità internazionale in Mali e nelle aree limitrofe, tutte le realtà, sia legate al terrorismo che alla corruzione politica, non hanno avuto flessioni, anzi sono in costante aumento.

La crisi saheliana sta mostrando tutte le sue caratteristiche e rivela i difetti della maggior parte degli strumenti mobilitati in modo tradizionale, bilateralmente o multilateralmente, dagli attori internazionali. Ad esempio, la strategia per la regione del Sahel, prevista nella operazione Barkhane, guidata dalla Francia dove opera l’esercito transalpino, nasce con lo scopo di dare la possibilità agli Stati partner di acquisire gli strumenti per garantire la propria sicurezza in modo indipendente. Detta “operazione” è nata prevedendo un approccio globale con il contesto in cui agisce, abbracciando certamente la sicurezza, ma anche la politica e lo sviluppo. Come scritto in più occasioni su questa testata, i risultati dell’operazione Barkhane sono stati deludenti, i numeri sulle perdite umane e l’enorme costo finanziario sono due aspetti determinanti del fallimento. Dati come sempre non completamente attendibili rivelano che dal 2012 ci sono state tremilacinquecento vittime civili, molte causate non solo dal “fuoco nemico”; dal 2014 oltre un milione di civili sono diventati profughi a causa della pressante presenza e violenza jihadista; circa seicento jihadisti sono stati annichiliti dalle forze di contrasto del Barkhane e cinquantasette soldati francesi hanno perso la vita negli sconti contro i terroristi islamici, non si hanno notizie attendibili del numero dei soldati maliani che sono rimasti sul campo. Ma il fallimento è anche pesantemente politico. Infatti, anche se l’aspetto della sicurezza assorbe le maggiori attenzioni, quello della instabilità politica è determinante nel confermare il pantano sociale di tutta la regione del Sahel, dove l’unica realtà crescente è la “colonizzazione” jihadista, che partendo dall’area dei tre confini – Niger, Mali, Burkina Faso – si estende fino alla zona del lago Ciad e al nord della Nigeria.

Un altro aspetto dai connotati fallimentari è stata la carente formazione nell’ambito dell’addestramento militare dei soldati maliani e la inidonea fornitura delle attrezzature militari. Queste considerazioni sono determinanti nel dimostrare l’insuccesso della cooperazione, in quanto gli esiti positivi di molti scontri con i gruppi jihadisti sono stati ottenuti esclusivamente dalle forze militari francesi spesso coadiuvate, marginalmente, da altre unità militari sia statunitensi che europei e piò o meno occultamente da altre milizie di diversa provenienza. Sebbene l’operatività dei militari “saheliani” sia innegabilmente migliorata, queste forze non sono ancora in grado di prendere in carico pienamente la loro missione di proteggere le istituzioni statali, mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza in tutti i territori; inoltre l’utilizzo degli ormai indispensabili droni armati è escluso ai militari saheliani. Va tuttavia detto che il sistema cooperativo saheliano ha caratteristiche, di “matrice occidentale”, che non agevolano il già articolato contesto; tra queste ricordo la lentezza e la complessità delle procedure amministrative e di bilancio necessarie per attuare i massicci finanziamenti destinati a rendere operative le forze congiunte.

I meandri di queste complessità burocratiche si articolano tra i vari vertici dell’Alliance for the Sahel, dell’European Force Takuba, del P3s (Partnership for security and Sstability in the Sahel) e per primo il G5 Sahel; queste “giunte decisionali” rendono il coordinamento del mastodonte cooperativo complesso e quasi impossibile da controllare. A giugno 2020, al fine di coordinare detto pachiderma burocratico, è stata formalizzata a Nouakchott in Mauritania, la nascita della Coalizione internazionale per il Sahel. Tale istituzione ha ora la responsabilità di oliare il complesso meccanismo che irrora, con varie risorse, l’area sub sahariana e saheliana, con la speranza che non sia un’altro vortice burocratico avido di finanziamenti e disorientato.

Tutto ciò accade mentre il capo di Stato maggiore delle Forze armate francesi, François Lecointre, ha dichiarato che sta valutando seriamente di avviare un’uscita onorevole per i suoi 5.100 soldati impegnati nel Sahel in una guerra, che in otto anni, ha assunto le sembianze di un pozzo senza fondo. Inoltre, le dichiarazioni di Lecointre si rivelano dopo un recente errore dell’aviazione francese che il 3 gennaio in un attacco aereo nel villaggio di Bounti, in Mali, ha sterminato circa una ventina di civili, scambiati per jihadisti, che partecipavano ad un matrimonio; l’errore è stato ammesso dalla Francia con ritardo e solo dopo che diverse fonti locali e l’associazione internazionale denominata Tabital Pulaaku, che ha lo scopo di sostenere la “causa” dell’etnia Fulani, hanno diffuso la notizia e le inconfutabili testimonianze del tragico scempio.

Aggiornato il 18 gennaio 2021 alle ore 08:03