Donald Trump: la difficile eredità

martedì 12 gennaio 2021


A giochi chiusi. Senza più guardare indietro, a ciò che è accaduto, carnevalate spacciate per golpe e autentici brogli elettorali. E dando, ormai, per certo che la breve parabola elettorale di “The Donald” si è conclusa, lasciando agli storici del futuro l’onere di valutarne l’importanza… Resta, comunque, una domanda. Che eredità ha lasciato la Presidenza di Donald Trump? Ovvero, come questi quattro anni e, soprattutto, questi ultimi, convulsi mesi incideranno sul futuro degli States? E, per inevitabile ricaduta, sulla scena politica mondiale?

Trump ha saputo incarnare quella che, di fatto, è la terza cultura politica statunitense. Altra e alternativa sia ai Conservatives che ai Liberal. Di fatto la più autentica cultura politica americana. Perché il populismo “non ha radici forti in Europa, ove, anzi, tale definizione viene per lo più usata in senso spregiativo. Il che, per inciso, spiega la non comprensione e la supponenza con cui i nostri intellettuali hanno trattato il fenomeno Trump. Bollandolo come una sorta di folkloristico e ridicolo incidente della storia. Mentre si è trattato del prepotente emergere di quel populismo che è voce dell’America profonda. E che ha una lunga tradizione culturale. Basti pensare a filosofi come Thureau e lo stesso Emerson. A poeti come Withman. A scrittori come Mark Twain… E, soprattutto, a intellettuali del secondo Novecento come il sociologo Christopher Lasch o a Paul Piccone e alla rivista “Tèlos”…

Tuttavia, per sua natura – magmatica e viscerale – il populismo non è mai riuscito a darsi una veste politica o a egemonizzare uno dei due grandi partiti-contenitori. E si è sempre espresso come una folata di vento improvviso. Tanto forte da scuotere le istituzioni, ma effimero. Anche perché sempre strettamente legato ad una leadership carismatica, esercitata da un personaggio “eccentrico” rispetto all’establishment. La vicenda di Ross Perot e del suo Partito della Riforma negli anni Novanta, ne resta l’ esempio più chiaro.

Trump è riuscito in quello in cui avevano fallito Perot e altri prima di lui. Conquistare la Nomination Repubblicana, e poi la Casa Bianca nel 2016. E vi è riuscito sia in forza dell’insipienza dei suoi concorrenti Dem e Gop, sia perché ha sfruttato l’emergere di una galassia di gruppi e movimenti, dai Tea Party ai fondamentalisti della Belt Sun, che cercavano una leadership.

Tuttavia una cosa è conquistare lo Studio Ovale sulla spinta dei movimenti populisti. Altra esercitare pienamente il potere. Perché il limite di Trump è stato il limite dei populisti. Non sono parte dell’establishment. Non sono mai riusciti a controllare i gangli vitali dell’Amministrazione. Di qui la sconfitta. E, possiamo dirlo, la fine politica di The Donald.

Certo, senza un leader carismatico e eccentrico, il populismo tornerà ad essere una mera tendenza culturale. Profondamente radicata nel corpo degli States. Ma inetta a conquistare il potere reale. E ad esercitarlo. Per lo meno questo è quanto sperano le tradizionali élite sia conservatives che liberal, che hanno ampiamente cooperato per la distruzione di Trump. Puntando ad un ritorno all’ordine che, nel 2024, dovrebbe vedere la sfida per la Casa Bianca fra la Harris e lo scialbo Pence.

Tuttavia, la vicenda Trump ha scavato un solco profondo negli States. Da un lato quelle élite urbane delle due Coste che sono legate a modelli culturali comuni, ancorché politicamente rivali, e che traggono profitto, in un modo o in un altro, dalle politiche di globalizzazione, dal turbo – capitalismo, persino dall’outsourcing della produzione industriale. Élite di fatto cosmopolite, e ben poco legate all’identità americana. Dall’altro il Ventre Profondo degli States. Che non è il pittoresco Toro Seduto che irrompe a Capitol Hill. È il Sud e il Midwest. Le aree produttive, non i colossi multinazionali, ma media, industria e agricoltura. La ricchezza reale, non il capitalismo finanziario e speculativo. È quel mondo, oltre 70 milioni di elettori che hanno votato Trump, che si sente di nuovo non rappresentato ed emarginato. E, soprattutto, indebitamente espropriato della democrazia.

Trump non ha lasciato un erede. Così come non è riuscito a costruirsi, in quattro anni, uno staff affidabile, forse con la sola eccezione di Pompeo. Ma la sua parabola ha lasciato un segno indelebile. Ben difficile che, negli States, tutto torni come prima. Alla normalità voluta e perseguita con ogni mezzo dall’establishment tradizionale. L’impressione è che il prossimo futuro ci riservi molte sorprese…

(*) Tratto da Il Nodo di Gordio


di Andrea Marcigliano (*)