Congo e Belgio: un anniversario, due reazioni

Dopo il plateale assassinio di George Floyd avvenuto negli Stati Uniti il 25 maggio, in tutto il mondo si sono verificate manifestazioni antirazziste con derive anticolonialiste che hanno ribaltato, anche fisicamente, il senso delle rappresentazioni simboliche dell’epoca coloniale.

Il capo della Monarchia Parlamentare Federale belga, re Filippo, martedì 30 giugno, in occasione dei sessanta anni dell’indipendenza del Congo, ha fatto un gesto molto atteso dai congolesi e dalla numerosa comunità nera del Belgio; usando molta prudenza nel suo scritto, ha pubblicato una missiva diretta al presidente Félix Tshisekedi, tramite la quale ha manifestato i suoi “più profondi rammarichi per le ferite del passato”, riferito alla colonizzazione che è stata segnata da atrocità commesse contro i congolesi, sia durante il periodo coloniale, compreso tra 1908 ed il 1960, sia ai tempi dello stato indipendente del Congo quando Leopoldo II possedeva, su base personale, una grande parte di quel territorio.

I giudizi storici sui fatti dell’epoca coloniale non sono totalmente unanimi, ma si allineano tutti sul fatto che l’impresa coloniale belga avrebbe provocato la morte di diversi milioni di persone. Re Filippo nella sua lettera a Tshisekedi scrive, non chiedendo scusa per vari motivi, della pena per “la violenza, la sofferenza, l’umiliazione” che come un’ombra hanno seguito l’epopea coloniale, menzionando anche le conseguenze causate da tali efferatezze ed oppressioni.

Il movimento Black Lives Matter è oggi l’espressione di questo galoppante disagio conclamatosi in Belgio in questi ultimi giorni; le forme di protesta e di ribellione sono cristallizzati sugli atteggiamenti discriminatori che colpiscono la comunità afro-belga, che scuotono, con manifestazioni e proteste la società tutta, favorendo in parte della popolazione l’ulteriore percezione che l’integrazione interculturale presenta molti aspetti fallimentari. Ancora, la polizia viene accusata dai manifestanti di violenza repressiva ma ciò che crea sgomento nella società afro-belga è il silenzio delle autorità e della monarchia sul passato coloniale. Il livello della protesta si è alzato quando sono stati “attaccati” i simboli visibili del colonialismo nella fattispecie le statue di Leopoldo II. Alcune di queste statue sono state trasferite, sulla scia delle manifestazioni, a Bruxelles e ad Anversa. I simboli di Leopoldo II e la sua figura sono oggi il bersaglio delle proteste antirazziste soprattutto perché lo stato Libero del Congo fu di sua proprietà dal 1885 al 1908 ed è accusato di essere stato responsabile della morte di milioni di persone, in particolare di quelli usati per la raccolta della gomma.

Tuttavia questa “febbre iconoclasta” pare non abbia colpito il Congo; a Kinshasa nessuna manifestazione è stata celebrata contro i simboli della colonizzazione, metaforicamente nessuna statua è stata abbattuta; la frenesia delle controversie sulla memoria della colonizzazione, che hanno provocato reazioni in molte capitali europee, non sembra disturbare molto gli abitanti dell’ex Léopoldville, Kinshasa dal 1960. Verosimilmente l’annichilimento dei ricordi coloniali espressi con la politica di “zairizzazione” del maresciallo Mobutu Sese Seko, negli anni Sessanta, e il relativo cambiamento della toponomastica di strade e città con la rimozione delle statue di Leopoldo II dagli spazi pubblici, ha assopito la memoria. Oggi la gran parte della popolazione congolese non sa che la statua del re belga Alberto I era presente davanti alla Stazione centrale fino alla indipendenza del 1960; come la statua di Leopoldo II che era posizionata limitrofa all’attuale Palazzo della Nazione, nel cuore della capitale; così come quella del fondatore di Kinshasa, l’esploratore britannico Henry Morton Stanley. Queste tre statue dal 1960 al 1990 hanno preso polvere in un deposito nel distretto industriale di Limete, prima di essere collocate nel parco del Museo Nazionale, sul monte Ngaliema, nei primi anni Novanta. Il sito è stato accessibile ai visitatori fino a marzo, prima dell’adozione delle misure anti-coronavirus.

Tuttavia ancora oggi alcuni testi storici riportano il discorso pronunciato a Léopoldville da Baldovino I (quinto re del belgio che regnò dal 1951 fino alla sua morte avvenuta nel 1993) il 30 giugno del 1960, giorno dell’indipendenza, nel quale qualificò Leopoldo II come un “civilizzatore. All’epoca, il capo dello Stato belga, zio dell’attuale sovrano, aveva menzionato la “grande opera” ed il “genio” del suo antenato; un’esaltazione a cui Patrice Lumumba, fondatore del Movimento Nazionale congolese, aveva risposto con rabbia. Lumumba, primo eroe del post colonialismo, ucciso nel 1961, divenne un martire dell’anti-colonialismo, aveva descritto il suo Paese come brutalizzato e svuotato delle sue ricchezze dal colonialismo belga, ma oggi tra revisionismo, negazionismo, opportunismo e penuria di conoscenza, anche gli eroi-martiri stentano a farsi ricordare. In questo momento, l’unico modo per dissipare nebbie e tensioni è che venga fatta dagli storici belgi e congolesi un’opera di ricerca scientifica che abbatta pregiudizi e ignoranza.

Aggiornato il 03 luglio 2020 alle ore 10:00