Il Dragone allunga, un altro po’, i propri artigli su Hong Kong

La Cina lascia intendere ai diretti interessati, cioè alla popolazione di Hong Kong, e al resto del mondo, di non avere nessuna intenzione di mollare la presa sull’ex-colonia britannica ed anzi, di essere determinata ad accrescere ulteriormente la propria influenza su quel territorio a costo di cancellarne la particolare autonomia. L’anno scorso ha visto il primo tentativo da parte di Pechino tramite la controversa legge sulle estradizioni, spinta più o meno sottobanco dalla Cina e caldeggiata in modo palese dalla governatrice filo-cinese di Hong Kong Carrie Lam, che avrebbe consentito alle autorità giudiziarie controllate dal regime del Pcc di processare e giudicare cittadini residenti nella regione autonoma. Sarebbe stato anzitutto uno stravolgimento del principio “un Paese, due sistemi”, che regola la speciale autonomia dell’ex colonia britannica dal 1997, anno del ritorno della medesima sotto la sovranità cinese.

Non dimentichiamo che il sistema giuridico di Hong Kong è basato sul Common Law di origine britannica. Inoltre, la famigerata legge voluta dalla governatrice Lam avrebbe permesso alla Repubblica popolare cinese, che notoriamente, ai piani alti, non è proprio un covo di promotori della libertà, di vessare il dissenso politico oltre i confini della Cina continentale, più che dare del filo da torcere al crimine comune. La prima prova di forza non è comunque andata secondo i piani di Xi Jinping perché le imponenti manifestazioni di piazza della fine del 2019 hanno poi costretto Carrie Lam a ritirare il contestatissimo provvedimento sulle estradizioni. Da quelle proteste, dalle quali è sorto un giovane leader come Joshua Wong, si è capito bene come il popolo di Hong Kong, a differenza dei cinesi continentali, non fosse e non sia affatto disponibile ad accettare imposizioni autoritarie. L’influenza britannica, politica e culturale, è ancora viva e non è un caso che i giovani manifestanti amino sventolare la bandiera coloniale utilizzata ufficialmente sino al 1997. Pechino ha subito poi un altro smacco dalle elezioni distrettuali tenutesi a fine novembre scorso e nelle quali hanno trionfato i candidati pro-democrazia.

Il 2020, Annus horribilis a causa del ben noto Covid-19, non è stato subito caratterizzato da nuovi attacchi imperialistici del Dragone ai danni dell’ex-colonia britannica, anche perché il Coronavirus ha monopolizzato l’attenzione, prima del regime comunista cinese, e poi via via del resto del mondo. Ma ora è l’Occidente ad essere perlopiù occupato dalla pandemia, mentre la Cina pare essersene liberata, sempre che l’informazione ufficiale del Pcc la racconti giusta, quindi Xi Jinping e i suoi gerarchi, forse approfittando di un mondo ancora concentrato a contare morti e contagiati da Covid-19, sono tornati ad allungare i loro artigli su Hong Kong, facendo capire di non aver affatto capitolato di fronte alle sconfitte di fine 2019. Si vuole imporre, questa volta non più sottobanco, facendo fare il lavoro sporco alla governatrice Lam, bensì in modo diretto bypassando il parlamento locale, una legge sulla sicurezza nazionale che segnerebbe davvero la fine del principio “un Paese, due sistemi”. La speciale autonomia della regione verrebbe seppellita in automatico e Pechino potrebbe aprire in loco propri uffici di intelligence.

Com’era immaginabile, gli attivisti del fronte democratico sono tornati nelle strade e insieme a loro, purtroppo, anche la repressione poliziesca filo-cinese, che ha già messo agli arresti centinaia di persone. I giovani democratici hongkonghesi, i quali stanno rischiando la galera e pure la vita, non possono essere lasciati soli dal mondo libero! Donald Trump ha promesso che “farà qualcosa”, e tendiamo a fidarci di un Presidente che finora ha saputo tenere testa alle mire cinesi. Vi è stata una fase in cui la Cina ha pensato soprattutto al business internazionale e meno alle istanze dal sapore imperialistico, ma essa è divenuta recentemente più aggressiva verso quelle realtà dove il regime del Pcc esercita una sovranità parziale, oppure dove non la esercita per niente come a Taiwan, indipendente de facto. Proprio il governo di Taipei, orgoglioso dell’indipendenza taiwanese, ma anche solitamente cauto e ponderato, ha parlato di rischio di aggressione militare da parte della Repubblica popolare cinese. Questa prepotenza necessita di un contenimento quanto mai urgente. Prima degli eserciti e delle armi, vi sono altri strumenti come, ad esempio, la rimodulazione della globalizzazione in chiave meno sino-centrica. Altresì, non si può che continuare a pressare Pechino circa la diffusione mondiale di questo maledetto virus, le cui origini non sono tuttora chiare.

Aggiornato il 28 maggio 2020 alle ore 12:05