Coronavirus: si prevede un’ecatombe africana

Nonostante le notevoli difficoltà a recepire informazioni attendibili circa la diffusione del Nuovo coronavirus in Africa, dati “pseudo reali” iniziano a “delinearsi”. La difficoltà ad avere informazioni in merito, non è dovuta alla reticenza degli Stati africani ad esporre la situazione sanitaria, ma dalla effettiva impossibilità a monitorare un’ambiente ed una popolazione, tradizionalmente difficilmente controllabile, escludendo, parzialmente, i grandi centri urbani, che hanno delle caratteristiche sociali aggregative che facilitano gli accertamenti.

Il premio Nobel per la Pace Denis Mukwege (il medico che “ripara le donne”), ha pubblicamente dichiarato che l’Africa rischia un “massacro” se non si agisce repentinamente sia nella prevenzione che nella cura.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha altresì sottolineato che l’Africa deve prepararsi al peggio a causa della pandemia da coronavirus; visto il difficilmente superabile deficit sanitario, sarà impossibile far fronte ad un prevedibile importante afflusso di infettati. Tuttavia, i dati ufficiali rivelano che il continente sembra relativamente risparmiato: 42 Paesi africani su 54 risultano attualmente interessati dal Covid-19; ma tali “dati” rasentano l’inverosimile, quando vengono dichiarati solo 4781 casi positivi e 146 morti registrati al 31 di marzo.

Attualmente l’Africa conta circa 40 laboratori in condizione di eseguire test di rilevazione virus; rispetto a poco più di un mese fa, vi è stato un notevole miglioramento, quando gli unici laboratori efficaci, a tale diagnosi erano due, Dakar ed uno in sud Africa, allora le possibilità di riconoscere il Covid-19 erano molto più limitate.

Un capillare “investimento sanitario” internazionale ha dotato la maggior parte degli Stati africani, di almeno i kit di rilevazione. Nondimeno, come sappiamo, poter fare i test è una cosa, avere i reagenti ed i materiali di consumo per eseguirli è un’altra, considerando anche la scarsità delle necessarie attrezzature, mascherine, camici, ventilatori ecc., carenti anche in Europa. Inoltre la maggior parte di questi necessari strumenti non proviene da paesi africani, considerando che tali materiali sono causa di articolate tensioni internazionali, possiamo immaginare quali dinamiche portano e porteranno questi prodotti in Africa.

Dakar rimane comunque il fulcro dell’efficienza sanitaria africana in questo ambito.

Il capo del dipartimento di virologia dell’Istituto Pasteur di Dakar, Ousmane Faye, è forse uno dei massimi esperti, non solo dal punto di vista medico, delle “dinamiche virali” africane. Ad oggi in Senegal, dove sono state contagiate 142 persone, non risulta alcun decesso. Ousmane Faye ha avuto importanti esperienze nella lotta contro l’Ebola nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), ed in Guinea. In una sua intervista all’Afp (Agence France Press), ha dichiarato che: “la comunicazione con le comunità sarà la chiave per la lotta contro il coronavirus”.

Quello che si evince delle affermazioni di Faye, in riferimento soprattutto al “sistema comunicativo” legato all’esperienza con l’Ebola, è che l’“epidemia” non può essere “trattata” solo sotto l’aspetto medico, ma anche nella sua componente socio-antropologica e di comunicazione. Infatti una grande difesa si può avere dalla comunità. Se l’attore sanitario da le direttive legate all’aspetto medico, è tuttavia la comunità al centro della lotta.

Analizzando brevemente i decennali rapporti elaborati sull’Ebola, possiamo vedere che all’inizio la risposta all’epidemia era esclusivamente medica e fu dichiarata un’operazione inefficiente e fallimentare; da questa esperienza si sviluppò la consapevolezza che la risposta della collettività era fondamentale, rendendo strategico l’aspetto comunicativo. Oltre il fattore comunicativo, elaborato dall’esperienza Ebola, l’Africa annovera probabilmente anche un altro fattore importante da valutare, che è quello dell’età media degli africani. Il 60 per cento della popolazione ha meno di 25 anni. Va detto che se la “piramide demografica” africana è teoricamente un ostacolo alla pandemia, è anche vero che nella popolazione di età giovanile, come nella popolazione più vulnerabile europea, esiste un’alta percentuale di comorbilità. Prossime analisi potrebbero svelare scenari socio-sanitari di rilevanza.

Ulteriormente, sarà interessante capire come i vari gruppi jihadisti che costellano la “galassia” dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs), combatteranno questo nemico invisibile che è il coronavirus, in un contesto dove la massa è selezionata sulla base dell’ignoranza e con la violenza e dove la promiscuità e l’aggregazione forzata, sotto forma di “preghiera”, indottrinamento e plagio, sono l’unico punto di forza degli estremisti islamici, condizioni favorevoli alla diffusione del virus. Va ricordato che i sistemi sanitari delle varie associazioni jihadiste sono pressoché delegati alla “Natura”.

L’unica “espressione sanitaria” jihadista risale a quanto riportato, nel 2015, dal mensile dell’Isis Dabiq, nell’articolo titolato “Healthcare in the Khilafah”, dove si favoleggiava sull’efficienza del Sistema Sanitario Statale islamico (Ishs) a Raqqa, in Siria, ma era quasi unicamente pubblicità.

Aggiornato il 02 aprile 2020 alle ore 12:45