L’Africa vuole prendere le “redini” delle crisi in Libia e nel Sahel

mercoledì 12 febbraio 2020


Ad Addis Abeba, oltre il “seminario” per la formazione di operatori e tecnici sanitari in grado di “riconoscere” il coronavirus, si è concluso anche un vertice dell’Unione Africana (9-10 febbraio), dedicato specialmente al “macro problema” libico.

Secondo le ottimistiche previsioni degli organizzatori, l’incontro di Addis Abeba  doveva essere un punto di partenza per un ruolo attivo e strategico degli Stati aderenti all’Ua per la risoluzione sia della “questione” libica, sia per fronteggiare  la diffusione del jihadismo organizzato rappresentato dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs), nell’area del Sahel. Tuttavia quella che doveva essere “la voce dell'Africa sulla crisi libica e dintorni”, si è dimostrata come un coro disarmonico composto da “solisti”, che hanno ostentato il loro individualismo solo per una percezione egocentrica del proprio ruolo. Comunque l’“ottimismo ragionato” del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, presente ad Addis Abeba, lo ha indotto a sottolineare che molte incomprensioni, sia tra gli Stati africani che tra l’Unione Africana e le Nazioni Unite, erano state risolte.

Superati momentaneamente i dissapori tra le Nazioni Unite e l’Unione Africana, causati dell’esclusione di quest’ultima da ogni trattativa o negoziato finalizzato alla risoluzione della crisi libica, Guterres ha dichiarato che: “Il partenariato strategico tra l'Unione Africana e le Nazioni Unite è di enorme importanza; il nostro rapporto è stato rafforzato e rivitalizzato”. Il Commissario per la Pace e la Sicurezza dell'Unione Africana, Smaïl Chergui, durante il vertice dell'organizzazione panafricana di Addis Abeba, ha ribadito che di fronte alle gravi crisi in Libia e nei Paesi del Sahel, l'urgenza di reagire è impellente ed è giunto il momento, da parte dell'Africa, della riappropriazione sia del “ruolo” che della “situazione”.

E’ così che, anche se parziale, la “voce del continente africano”, tramite le proprie iniziative ed istituzioni, comincia a farsi sentire dopo essere stata ignorata soprattutto dall’intervento internazionale in Libia del 2011. Guterres ha  insistito nel fare ammenda dichiarando: Comprendo appieno questa frustrazione; l'Africa è stata messa da parte per quanto riguarda la Libia; moralmente questo  atteggiamento non poteva continuare. Smaïl Chergui ha continuato affermando che il “fascicolo” Libia è stato negato agli Stati africani per più di otto anni; negare all'Africa la propria partecipazione al proprio destino è inspiegabile; aggiungendo che: “Se l’Unione Africana resterà ancora esclusa dai negoziati riguardanti il continente, si potrebbe mettere in dubbio la collaborazione con le Nazioni Unite e con le organizzazioni internazionali extra-africane”.

Al di là della questione delle Nazioni Unite, la Libia è notoriamente il punto di convergenza di molteplici interessi. I due avversari che si contendono il dominio globale della Libia, il Gna ​​(governo di accordo nazionale) di Faïez Sarraj e l’Anl (l'esercito nazionale libico) del feldmaresciallo Khalifa Haftar, sono solo la punta dell’iceberg di un sistema di interessi planetari, che vede attori esterni che stanno conducendo una guerra per procura in Libia; inoltre la profusione nei Paesi limitrofi di gruppi jihadisti, determinano l’elevazione dei parametri di instabilità socio-politica. Secondo quanto emerge dall’ultimo rapporto elaborato al summit dell'Unione Africana, oltre 21mila combattenti provenienti da Paesi africani sono attualmente coinvolti nel conflitto libico; questi mercenari e pseudo-mercenari  provengono dal Mali, dal Niger, dal Sudan e dal Ciad. Alcuni di questi gruppi sono schierati su entrambi i fronti della guerra; osserva la fonte dell’Ua che: “Questi combattenti stranieri possono essere impegnati anche nel numero di 5mila contemporaneamente sui due fronti, per non parlare dell'influenza o della presenza di russi di turchi, degli Emirati, della Siria e dei  francesi. Ha reso noto Oussama Abdelkhalek, ambasciatore dell'Egitto presso l'Ua, la necessità di affrontare le cause profonde del conflitto: “Se vogliamo risolvere questo problema, stiamo parlando di profonde sfide socioeconomiche, stiamo parlando di sfide politiche oltre a quelle sulla sicurezza".

Al vertice di Addis Abeba mancavano alcuni capi di Stato; è noto che i summit  dell'Unione Africana (Ua), sono delle “vetrine di speranze che creano suspense”; ci si illude che da lì possano scaturire piani strategici risolutivi delle varie “cause africane”, ma di norma tutto rimane tale. Il pluridecennale presidente del Camerun, Paul Biya, assente, era atteso dagli omologhi africani anche per discutere della “crisi anglofona”. Detta “crisi”, nata nel 2016 a causa della nomina di giudici di lingua francese, fu identificata come un affronto dai giuristi anglofoni che hanno iniziato una protesta che sta portando il Camerun verso una scissione su base linguistica, accompagnata da violenze e morti. Inoltre è apparsa sul quotidiano sudafricano Mail & Guardian, una dichiarazione di Solomon Dersso, capo dell'ente che si occupa dei Diritti Umani dell'Ua, che ha affermato che la situazione umanitaria africana è drammatica. Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, successore dell’“egiziano” Abdel Fattah al-Sissi alla presidenza dell'Ua, a fine gennaio ha ricordato che i conflitti continuano a limitare lo sviluppo dell'Africa; asserendo che gli obiettivi dell'integrazione economica e la lotta alla violenza contro le donne, passano attraverso la promozione di un'Africa sicura e in pace.

Come si può notare da queste brevi considerazioni molte pretese dell’Unione Africana di partecipare alla risoluzione della crisi libica o del Sud Sudan o del jihadismo nel Sahel, si scontrano con problematiche socio-economiche-umanitarie o nazionali di cui ritengo propedeutica la soluzione prima di un impegno “diplomatico” su scala continentale.


di Fabio Marco Fabbri