Coronavirus: l’Africa in stato di allerta

lunedì 10 febbraio 2020


Come prevedibile il coronavirus “preoccupa” anche i Governi africani; è di poche ore fa una notizia proveniente da fonte camerunense, che rivela le angosce di una famiglia che abita a Douala, capitale economica del Camerun, che ha un figlio studente nella provincia di Hubei in Cina contagiato dal virus. Sono molti gli studenti africani che studiano in Cina, in particolari circa 300 camerunensi che frequentano l’Università di Yangtze nella provincia di Hubei. Apparentemente il Camerun sta affrontando questa proto-pandemia in modo confuso; i genitori degli studenti presenti nella zona di Hubei hanno fondato l’associazione Bring Back Our Children (riporta i nostri figli), in modo da pressare il Governo affinché si adoperi nel recuperare gli studenti e non solo, dall’area infettata; ma a quanto risulta il governo non è trasparente e sembra che stia nascondendo la realtà dell’epidemia, inoltre ad oggi non è stata intrapresa alcuna azione.

Secondo fonti “cinesi” ed dell’Afp (Agence France Press), il coronavirus ha attualmente ucciso oltre 900 persone ed infettate oltre 35mila solo nella Cina continentale. Sempre secondo fonti Afp, nella giornata di giovedì 6 febbraio, 73 persone sono morte, tra cui 69 nella provincia di Hubei, epicentro dell’epidemia.
Come si può immaginare avere dei dati reali in un contesto sia geografico che sociologico come quello cinese è estremamente complicato: esistono aree geografiche delle quali non si conoscono o non esistono dati anagrafici ed in molti casi completamente isolate da ogni tipo di comunicazione; in tali ambiti è impossibile monitorare qualsiasi attività sociale o qualsiasi fenomeno, anche sanitario, che possa colpire quelle popolazioni. Inoltre la Cine non è mai emersa come “portatrice di trasparenza assoluta”.

Tuttavia secondo il dottor Pisso Nseke, coordinatore umanitario della comunità camerunese di Hubei, fino ad ora le autorità del Camerun non hanno annunciato alcun rimpatrio, assicurando che gli studenti non lo chiedono: “Siamo in contatto con la maggior parte dei camerunesi che vivono in Cina”, ha affermato il capo dell’unità di comunicazione presso il Ministero della Sanità Pubblica, Clavère Nken. Tutti ricevono cure ed assistenza appropriate, ha affermato l’ambasciatore cinese in Camerun. Secondo il settimanale Jeune Afrique, il Ministero degli Esteri Camerunense ha inviato una missione a Pechino per valutare la situazione in loco. La grande accortezza nel gestire questa temibile epidemia sta causando, nell’area infettata, una carenza di cibo; un aiuto importante per questi studenti è stata la realizzazione di un gruppo, CamerWuhan creato su WeChat, un’applicazione mobile di messaggistica vocale e di testo che lega e informa. Nonostante la grande preoccupazione, esiste una corrente di pensiero che auspica la permanenza degli studenti a Wuhan, in quanto si da molta più fiducia al “sistema sanitario cinese” che a quello camerunense, visto che il Camerun non riesce a risolvere il “problema” della diffusione del colera.

Allargando lo “spettro” di questa breve “analisi africana”, riscontriamo la dichiarazione del presidente del Senegal Macky Sall, il quale, riferendosi alla “logistica completamente fuori dalla portata del Senegal”, afferma che i cittadini senegalesi non saranno ancora rimpatriati dalla città cinese di Wuhan, epicentro dell’epidemia di coronavirus 2019-nCoV. La scelta del Senegal sembra “superata” rispetto a quella della Mauritania, del Marocco o dell’Algeria, che hanno iniziato a riportare indietro i loro cittadini, ma la capitale senegalese è in effetti il ​​luogo in cui è organizzata la “risposta scientifica africana”. Si è tenuta la settimana scorsa presso l’Istituto Pasteur di Dakar (Ipd) una riunione dei rappresentanti sanitari di quindici paesi africani per un seminario di formazione continentale. La scelta di questi laboratori è stata fatta in base al loro livello di prestazioni, ma anche secondo una “dialettica” regionale: tre dell’Africa orientale (Etiopia, Kenya, Uganda), tre del Maghreb (Egitto, Marocco, Tunisia), altrettanti dell’Africa centrale (Camerun, Gabon, Repubblica Democratica del Congo), cinque dell’Africa occidentale (Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Nigeria, Senegal) e una dell’Africa meridionale (Zambia).

L’Ipd, diretto da Amadou Sall, è riconosciuto come “eccellenza” nell’ambito africano, per l’esperienza nel campo virologico, ma soprattutto nei virus epidemiologici. L’Ipd è stato finanziato dal Centro Africano per la Prevenzione ed il Controllo delle Malattie (Cdc), con sede ad Addis Abeba; questa agenzia, che dipende dall’Unione Africana, supporta i Paesi del continente nel monitoraggio delle malattie infettive e nella risposta alle emergenze.

Il direttore dell’Ipd, Amadou Sall, ha enigmaticamente dichiarato che: “in Africa sembra che non ci sia un’emergenza perché nessun Paese africano si dichiara tra quelli infetti dal coronavirus, ma non è perché nessuno è infetto, ma perché quasi nessuno può rilevarlo nel continente”. In Africa solo due strutture sono in grado di diagnosticare il coronavirus mediante analisi: l’Istituto nazionale per le malattie trasmissibili (Nicd) in Sudafrica e l’Ipd.

Il seminario di Dakar ha lo scopo di formare tecnici di laboratorio in grado di riconoscere il coronavirus 2019-nCoV, in modo da avere una “fotografia” attendibile della situazione nel continente africano, necessaria anche all’Europa.


di Fabio Marco Fabbri