Sahel: crisi umanitaria e jihadismo

Il 13 gennaio a Pau (Francia, regione dei Pirenei atlantici) si è svolto l’ennesimo vertice franco-africano tra il presidente francese Emmanuel Macron e gli omologhi del G5 Sahel. In tale ambito è emersa la necessità di rafforzare gli sforzi militari nell’area denominata dei tre confini (Mali, Niger e Burkina Faso), dove lo Stato islamico del Grande Sahara (ISGS) sta rafforzando le sue postazioni, assumendo sempre con maggiore consistenza una “fisionomia statale”. A Dioungani e a Sokolo nel centro del Mali, si sono verificati nei giorni scorsi gli ennesi attacchi mortali contro le milizie del Barkhane; ricordo che l’”Operazione Barkhane” è una strategia francese applicata nel Sahel per fare acquisire agli Stati partner la capacità di garantire la propria sicurezza in modo indipendente, essa si basa su un approccio globale: politico, di sicurezza e sviluppo, la cui componente militare è supportata e guidata dall’esercito francese. Tali aggressioni sono state rivendicate da un gruppo islamista collegato ad Al Qaeda ma “sotto la bandiera” dello Stato islamico.

A Sokolo, vicino al confine con la Mauritania, domenica 26 gennaio, all’alba, si è “celebrata” l’ultima performance dei jihadisti. Infatti una postazione avanzata delle milizie maliane è stata attaccata da gruppi terroristici islamici; circa una ventina di militari sono stati uccisi e altri feriti, mentre risultano morti cinque aggressori.

Al di la del crescente numero di attacchi jihadisti perpetrati con mezzi offensivi e strategici sempre più sofisticati, quello che si nota è l’inefficacia dei sistemi di difesa coordinati dalla Francia. Fonti di informazione locali hanno affermato che un centinaio di jihadisti si sono frazionati in tre gruppi per attaccare da est, nord e sud la postazione militare e sono penetrati facilmente nella retrovia maliana smantellandola prima che i rinforzi, inviati da Diabaly una città situata a una decina di chilometri di distanza, potessero dare manforte. Inoltre due giorni prima un'altra posizione delle forze armate maliane era stata attaccata a Dioungani, non lontano dal Burkina Faso, con le stesse modalità operative, tranne per il fatto che le unità maliane chiamate in soccorso sono cadute in un'imboscata nella quale hanno perso la vita undici soldati.  Questa zona di confine è un’area sotto controllo dei miliziani dello Stato islamico e le modalità strategiche degli attacchi dimostrerebbero che tali “elementi”, come dichiarato dalla “fonte” di informazione, "sono infiltrati nella popolazione, che la loro mente funziona meglio della nostra e che erano a conoscenza dell'attrezzatura all'interno del campo", avendo razziato tutto l’arsenale bellico in dotazione all’esercito.  

L’area dei “tre confini” sta affrontando attacchi jihadisti che, secondo le Nazioni Unite, solo nel 2019 hanno causato oltre 4.000 vittime; malamente attrezzate e scarsamente addestrate, le forze militari del Barkhane non possono arginare la spirale di violenza. L’esodo da quest’area ha prodotto una serie di campi profughi, per nulla organizzati e suddivisi in settori in funzione dell’etnia e della provenienza; una vastità di tende si distende intorno agli hangar, molte testimonianze affermano le atrocità che colpiscono queste popolazioni, soprattutto se tentano di ritornare nei loro villaggi. I gruppi islamici rapiscono e uccidono chiunque si allontani dalla “zona hangar”, come testimoniato da questi “veri profughi” come Tahibata Ouédraogo, che vive da oltre sei mesi nel “campo”, la quale afferma che: “Quando andiamo a prendere legna nella boscaglia (i terroristi) ci prendono e violentano o introducono oggetti nel sesso … uccidono i nostri mariti e i nostri figli. Cosa saremo senza mariti e figli".  

Per cercare di fare fronte a queste “poliedriche” problematiche il presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keïta, domenica ha convocato una sessione straordinaria del Consiglio Superiore di Difesa e Sicurezza. Le conclusioni non sono trapelate ma la linea guida ripercorre il solito tracciato: "valutare la situazione al fine di riadattare la strategia", ha affermato il Presidente.

Nei giorni scorsi un importante emissario del Presidente maliano anche rappresentante diplomatico delle “regioni centrali”, ha avviato una serie di operazioni diplomatiche finalizzate ad aprire un contatto con i due principali capi dello Stato islamico del Grande Sahara, Amadou Koufa e Iyad Ag Ghali., ma come testimonia Brema Dicko, sociologa all’Università di Lettere e Scienze Umane di Bamako: "Questi attacchi possono essere un modo per dire che è troppo tardi".

Il jihadismo non è il solo elemento sociologico di destabilizzazione dell’area, i conflitti tra le “tradizionali” e “culturalmente esclusive” comunità tribali incrementano e complicano gli “indefiniti confini etnici”; elementi del gruppo Fulani si mescolano con i jihadisti colpendo la numerosa etnia dei Mossi e, procurando spirito di vendetta che esula da ogni ideologia pseudo religiosa o pseudo politica, rendendo sempre più agitate le “acque“ della “palude sahariana e del Sahel”, aggravando una crisi umanitaria poco percepita all’”esterno” ma in rapida ascesa.

Aggiornato il 30 gennaio 2020 alle ore 12:28