Trump e il tentativo di pace in Medio Oriente

Una regola che dovrebbe essere sempre tenuta a mente durante le negoziazioni di trattati è che gli accordi si fanno in due.

Regola che non è stata osservata per la stesura del piano di Donald Trump per la pace in Medio Oriente inteso a risolvere il conflitto israelo-palestinese, almeno per quanto si è visto nel corso della conferenza stampa avvenuta ieri alla Casa Bianca alla presenza del presidente americano e del solo primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Il piano viene proposto in un clima non del tutto amichevole tra il presidente palestinese Mahmoud Abbas e Trump, dopo che quest’ultimo ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e vi ha traferito l’ambasciata degli Stati Uniti, ma nelle intenzioni unilaterali dovrebbe aprire i negoziati diretti tra le Parti.

L’”accordo del secolo”, come definito da Trump, prevede l’originaria formula a due Stati che porterebbe alla completa indipendenza palestinese con capitale a Gerusalemme est e, a detta degli estensori, costituirebbe la più grande concessione territoriale mai fatta da Israele nel corso dei numerosi progetti di accordo tentati negli ultimi anni.

La parte più allettante della proposta parrebbe quella economica, che prevede investimenti da 50 miliardi di dollari per numerosi progetti da svilupparsi in Cisgiordania e Gaza tra cui la costruzione di un corridoio che attraverserebbe Israele per collegare le due entità con un’autostrada e una linea ferroviaria, il potenziamento delle centrali elettriche (non si dimentichi che Gaza riceve energia da Israele!), la costruzione di ospedali, università e nuove strade con valichi che consentano facilitazioni nel commercio transfrontaliero.

In un Paese con un Prodotto interno lordo di pochi milioni di dollari che nella quota pro-capite non supera di molto i duemila dollari, sembrerebbe un’occasione da non perdere.

Il punto fondamentale rimane però Gerusalemme, che secondo i contenuti del documento passerebbe sotto il pieno controllo israeliano, compresa la zona del Muro del Pianto e la Spianata delle Moschee, previsione che ha fatto immediatamente rifiutare il testo in toto dalle Autorità palestinesi con Abu Mazen che lo ha definito “la truffa del secolo” aggiungendo che “Gerusalemme non è in vendita”.

 Lo status internazionale di Gerusalemme rappresenta il problema dei problemi e nel quadro del conflitto arabo-israeliano sono stati sino ad ora svariati i tentativi per definirne lo status giuridico, tramite risoluzioni Onu e negoziazioni fra le parti, nessuno dei quali ha portato finora ad alcun esito definitivo. La sovranità territoriale della città luogo di culto delle tre religioni abramitiche è attualmente rivendicata sia da Israele, che dal 1967 ne ha il controllo de facto, che dal popolo palestinese in modalità finora inconciliabili a causa della varietà della composizione della popolazione, del suo valore storico e dell’importanza dei luoghi considerati patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

Israele rivendica su tutta Gerusalemme la piena sovranità e ne ha formalizzato con legge lo status di capitale “unica ed indivisa” tanto da avervi collocato tutti i ministeri, a parte quello della Difesa rimasto a Tel Aviv. L’Onu ha contrastato con più risoluzioni tale posizione e la maggior parte della comunità internazionale non riconoscendo la capitale in Gerusalemme ha le proprie ambasciate a Tel Aviv.

Agli israeliani verrebbe altresì riconosciuto il diritto di rimanere nelle colonie esistenti nei territori arabi pur con l’obbligo di non espandere gli insediamenti esistenti. Ai palestinesi invece sarebbe concesso un ampliamento del territorio confinante con Gaza, trasferendo alcune aree di deserto a sud di Israele al fine di poter realizzare le infrastrutture contemplate dai finanziamenti e di alleggerire la densità di abitanti per chilometro quadrato, attualmente la più alta al mondo dopo il Principato di Monaco.

Il piano al momento, pur avendo l’appoggio di alcuni Paesi arabi quali Oman, Bahrein e Emirati, sembra già fallito all’origine ma potrebbe costituire un’ennesima mossa strategica di Trump per provocare al fine di ottenere, nel quadro della sua politica del rischio calcolato fino ad ora rivelatasi vincente.

Aggiornato il 29 gennaio 2020 alle ore 12:11