Jihadismo nel Sahel: breve analisi delle cause

venerdì 27 dicembre 2019


Il “fenomeno” della diffusione del jihadismo nell’area del Sahel è al centro delle attenzioni internazionali a causa della sua repentina diffusione che, con articolate modalità, condiziona gli equilibri socio politici degli Stati Centro africani.

Sotto la “veste” dell’estremismo islamico che apparentemente è il condizionamento religioso che determina la diffusione del terrorismo su base jihadista, si celano altre motivazioni che con la religione poco o nulla hanno a che fare. Recentissimi studi condotti dall’Istituto di Studi e Sicurezza (Iss), che si occupa delle problematiche sociali della regione dell’Africa occidentale, del Sahel e del bacino del Lago Ciad, diretto da Lori-Anne Théroux-Bénoni, hanno analizzato le motivazioni che portano soggetti appartenenti a qualsiasi classe sociale, cultura, età, ad aderire ai movimenti terroristici jihadisti che “interessano” la regione.

Analizzando il “rapporto” scaturito da detti studi, che sono stati condotti con osservazione multidisciplinare e su soggetti che hanno ed hanno avuto legami con i movimenti terroristici, risulta che la motivazione religiosa non è assolutamente determinante nella scelta di aderire ai gruppi jihadisti. Gli studi si sono concentrati sui gruppi terroristici presenti in Niger, Mali e Burkina Faso, nell’area detta dei “tre confini” e su soggetti che hanno rivestito vari ruoli all’interno di detti “movimenti”.

Leggendo il “rapporto”, presentato il dieci dicembre a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, si evince che generalmente la scelta di “affiliarsi” ai gruppi jihadisti, che poi confluiscono nel “contenitore” dello Stato islamico del Grande Sahara, non è il frutto di un “percorso ideologico” di indottrinamento religioso, ma l’insieme di una serie di motivazioni che spesso ricadono nella “sfera personale” ed in banali origini, come gelosie, invidie e vendette. Altre cause della “scelta terroristica”, sono di genere “sociale”, come l’esigenza di avere una protezione familiare ed individuale in un contesto dove la “legge” e lo Stato dovrebbero proteggere la società, ma ciò non accade. Inoltre, come si verifica nell’“area dei tre confini”, dove l’Isgs controlla il territorio, aderire ai gruppi jihadisti è garanzia di sopravvivenza non solo a livello di protezione della vita, ma anche di poter mantenere una condizione economica legata all’agricoltura e alla zootecnia; infatti l’obbligo di “associarsi” da la possibilità di difendere i propri beni con le armi e con l’aiuto dei miliziani, creando quindi “dipendenza”. L’aspetto economico risulta significativo nel panorama delle “motivazioni della scelta”; il fine è sempre quello di salvaguardare ogni tipo di attività che è generatrice di reddito, come quella zootecnica che ha un peso predominante nel bilancio della sopravvivenza, in particolare in assenza di garanzie di sicurezza da parte dello Stato. Dal “rapporto” risulta anche che le prime vittime di questo “sistema” di “affiliazione al terrorismo per necessità” sono stati i funzionari delle acque e delle foreste che operavano nell'est del Burkina Faso, infatti le “autorità” statali vietavano ai cacciatori “per necessità”, autoctoni, di procurarsi la selvaggina nell'area protetta all'interno del complesso del parco nazionale dell’Arly e Pendjari, patrimonio dell’Unesco dal 1996 (Benin, Burkina e Niger), ma contestualmente autorizzavano, a scopo ludico, i cacciatori stranieri a fare strage di animali, creando frustrazione negli abitanti del luogo, sentimento che i gruppi terroristici hanno sfruttato ed “ottimizzato” a loro favore.

Altro dato interessante è quello relativo al “ruolo delle donne all’interno dell’Organizzazione terroristica”, la quale coordina le loro “attività” in funzione al contesto sociologico, culturale ed al legame sociale che hanno con i componenti del gruppo. Le donne assumono quindi ruoli di approvvigionatrici di alimenti, o anche di fertilizzanti utilizzati per la fabbricazione delle bombe, ma soprattutto informatrici vista la capacità di penetrazione all’interno delle varie comunità.

La strategica “penetrazione sociale” delle compagini jihadiste all’interno delle comunità è una delle maggiori difficoltà a cui gli Stati devono fare fronte. Infatti in questi ultimi anni si è passati dalle “affiliazioni” esogene (elementi algerini ed arabo berberi), al fenomeno dell’endogenizzazione dei reclutamenti, cioè all'interno delle comunità locali.

Alla luce di questa breve sintesi del “rapporto” dell’Iss (Istituto di Studi e Sicurezza), si può concludere che il fenomeno del jihadismo saheliano non è prettamente di matrice religiosa, ma che nasce da esigenze sociologiche (insicurezza, frustrazioni, finanziamenti, commercio); che la popolazione del Sahel è dotata di una notevole capacità adattativa e di una grande “elasticità ideologica”; che i gruppi jihadisti ed in particolare i loro leader, sono maestri nell'arte di sfruttare le “deficienze” degli Stati per proporre le “loro soluzioni”, anche se poi assumono connotazioni salafite-jihadista.

Quindi il problema è soprattutto di governance; il rafforzamento degli Stati e delle loro prerogative fa percepire alle comunità il senso dell’appartenenza e della tutela; verosimilmente le comunità “piombano” fra le braccia del jihadismo quando lo Stato, anche militarmente, da “risposte” al proprio popolo, infrangendo i principali diritti umani e favorendo così la diffusione del fenomeno dell’“emigrazione” verso gruppi terroristici. Quindi, oltre le “cooperazioni” militari internazionali a scopo stabilizzante, sarebbe utile che le comunità percepissero i loro rappresentanti dotati più di un senso di interesse generale piuttosto che personale.

Tuttavia, queste “dinamiche e pseudo fenomeni sociologici” seguono lo stesso “processo”, con le relative variabili, di analoghe “situazioni” a noi più “familiari”.


di Fabio Marco Fabbri