Burkina Faso: la coesistenza religiosa minata dai jihadisti del Sahel

I gruppi jihadisti “operanti” nell’area dei “tre confini”, Burkina Faso, Niger e Mali e inseriti all’interno dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs), stanno affinando la tipologia di “terrorismo sociale”, non solo nello “sconvolgere” e rendere insicura la popolazione, soprattutto di religione cristiana, ma anche creando rivalità interetniche.

Di fatto i jihadisti, sia nel Mali che nel Burkina Faso, stanno alimentato il contrasto e le tensioni, che già esistono, tra i vari gruppi etnici, infiltrando, all’interno di queste comunità, unità anche neo-jihadiste, con lo scopo di destabilizzarle socialmente e deteriorare la convivenza religiosa che caratterizza soprattutto il Burkina Faso.

In questo Paese circa il sessanta per cento della popolazione è musulmana, il trenta per cento è formata da cristiani e l’otto per cento è animista; un dato significativo è che i matrimoni interreligiosi fanno parte della vita quotidiana e che gli imam considerati troppo moderati, già dal 2015, subiscono violenze ed alcuni sono stati assassinati da estremisti islamici.

Il presidente del Burkina Faso, Roch Marc Christian Kaboré, dopo “l’attacco barbarico” di domenica, avvenuto in un luogo di culto protestante a Hantoukoura, nella parte orientale del Paese e dove sono state assassinate 14 persone, tra cui il Pastore, ha dichiarato: “Con questi atti spregevoli, i nemici del Burkina Faso vogliono minare la nostra convivenza. Li sconfiggeremo”.

Già dalla fine di aprile si sono verificati una serie di attacchi alle comunità cristiane, che hanno causato, fino a domenica scorsa, una decina di morti; nel massacro del primo dicembre sono stati uccisi cinque minori e risparmiate le donne, se escludiamo il Pastore, tutte le vittime portavano lo stesso cognome, Ouoba, inoltre, la piccola comunità religiosa era composta da circa venti fedeli. Secondo “fonti di sicurezza” citate dall’Afp (Agence France-Press), lo scempio è stato perpetrato da un gruppo di jihadisti, circa una dozzina “pesantemente armati” e “notati nella zona da molte ore”.

È seguita poi una operazione di rastrellamento organizzata dal gruppo militare di Foutouri, la capitale del dipartimento, ancora in atto, ma che al momento non ha dato riscontri positivi. La tattica delle milizie jihadiste è ormai nota: spostamenti repentini con mezzi leggeri, moto e pick-up, equipaggiati con armi anche molto offensive e di contrabbando, di produzione euro-asiatica.

Il fiorentissimo mercato delle armi si articola sulle “rotte” jihadiste e su quelle migratorie che attraversano il Sahel; le milizie del gruppo jihadista nigeriano di Boko Haram, affiliato, oltre che all’Isis, anche all’Isgs, fa “scuola” in tale ambito; di fatti fa fronte alle “esigenze” di “capacità offensiva” acquistando armi al mercato nero, dell’ex arsenale libico, al mercato Centro africano, al fiorente mercato “occidentale”, ma anche dai ricchi depositi delle forze armate nigeriane, le quali si approvvigionano di armamenti da Italia, Cina, Russia, Francia, Cekia, Eau, Ucraina, Sud Africa e Israele; è evidente che tra i citati ci sono nazioni che non producono armi ma che le smerciano di “secondo passaggio”.

“Leggere” i crescenti attacchi terroristici, di stampo jihadista, che imperversano nell’area saheliana, esclusivamente a scopo di “sopraffazione religiosa”, è molto limitante; l’area del Sahel è un enorme e disordinato “mercato globale” del contrabbando di qualsiasi cosa, fertilizzato dalla destabilizzazione sociale e politica, cosa che è ben nota ai gruppi jihadisti. Tuttavia, con “spirito contrapposto” e conscio della “posta in ballo”, il presidente del Burkina Faso ha inviato il suo primo ministro presso la sede della Federazione delle Chiese e Missioni Evangeliche (Feme), situata nella capitale Ouagadougou, per dare le sue condoglianze e sperare che questa nuova drammatica prova, che il Paese si trova ad affrontare, non favorisca quel sentimento di resa che serpeggia tra la popolazione.

La delegazione guidata dal capo del governo, Christophe Joseph Marie Dabiré, ha assicurato il sostegno del Governo e rassicurato i rappresentati della “Chiesa” che “l’esecutivo continuerà a lavorare con loro e prega affinché il Burkina Faso trovi pace e serenità”. Ha dichiarato il portavoce del presidente Kaboré che i terroristi cercano, attraverso queste azioni, di destabilizzare il Paese, creare disaffezione nella popolazione per quanto riguarda il potere e la protezione statale e spingere il popolo all’insurrezione affinché “qualcuno” “possa rimettere sul piatto un certo numero di cose”; esortando i Burkinabè (autoctoni del Burkina Faso) a rimanere uniti anche nella sofferenza del Paese.

Il presidente Kaboré, ha inoltre affermato che: “Grazie alla preghiera e alla collaborazione delle comunità religiose del nostro Paese, dei musulmani, delle chiese evangeliche, dei cristiani, degli animisti, delle religioni tradizionali, riusciremo a superare il difficile momento e contiamo sulle diverse preghiere per poter arrivare a garantire che il processo di sviluppo, che deve essere la base e il fondamento su cui costruiremo questo Paese, possa continuare con calma e serenità “; richiamando, inoltre, il popolo a mantenere la calma e la fiducia nei suoi leader e pregare per loro, certo che lo sforzo del Burkinabé sarà vincente, “unito e resiliente di fronte alle avversità”.

Nella complessità dell’area si staglia sempre più marcatamente la figura della Francia, i cui “interventi”, nonostante la sua “presenza” venga spesso strumentalizzata da alcuni leader politici per “consensi effimeri”, sono auspicati e formalizzati con impegnativi “trattati”.

Il “percorso politico” dell’area del Sahel è sempre più incamminato su quella traccia di “ri-colonizzazione”, in “veste XXI secolo”, necessaria e molto più gradita del reale rischio di islamizzazione radicale, sdogmatizzando il concetto che la “decolonizzazione” sia stata più un fallimento che una conquista.

Aggiornato il 04 dicembre 2019 alle ore 13:05