Sudan, la fine di una crisi o l’inizio della resa dei conti?

venerdì 19 luglio 2019


A Khartoum, il 17 luglio, è stata una giornata storica. Ibrahim al-Amin, uno dei massimi rappresentati del movimento civile denominato “Alliance for Freedom and Change (Alc)” e punta di diamante della protesta, ed il numero due del Consiglio militare al potere, Mohamed Hamdan Daglo, hanno firmato un accordo, non scontato, che dovrebbe porre fine al “primo” periodo di transizione, a guida militare, dopo tre mesi dalla caduta del presidente Omar Al-Bashir.

Il 5 luglio era già stato raggiunto un accordo di massima che prevedeva l’avvio di negoziati conclusivi tra le parti, finalizzato a disporre una condivisione del potere tra militari e civili. Gli aiuti della diplomazia dell’Unione Africana, dell’Etiopia e debolmente dell’Unione europea, con una sorta di “supervisione” dell’Arabia Saudita, degli Emirati e dell’Egitto, hanno contribuito a facilitare l’accettazione, da ambo le parti, di procedere ad un “secondo” periodo di transizione, questa volta ben definito, sia nei “pesi” politici, che nei tempi. I dodici giorni dall’accordo preliminare sono serviti a determinare aspetti molto significativi per il funzionamento del “patto”; come afferma Ibrahim al-Amin: “Oggi siamo d’accordo sulla dichiarazione politica”, aggiungendo che, “per il documento costituzionale riprenderemo i negoziati venerdì”.

Intanto i tempi sono stati stabiliti: tre anni e tre mesi, un tempo decisamente “comodo”, per definire il risolutivo passaggio al potere civile, nel quadro di una costituzione e con una chiara divisione dei “poteri”; una rappresentanza governativa composta da sei civili, di cui cinque da Alleanza per la libertà ed il cambiamento (Alc) e cinque appartenenti all’Esercito. I militari avranno la presidenza del Sudan per i primi 21 mesi della transizione, con i civili che subentreranno per i restanti 18 mesi. I tempi del secondo periodo di transizione sono stati il primo scoglio da superare, in quanto il Consiglio militare, che era al potere dopo la destituzione del presidente al-Béchir, voleva un tempo di due anni, mentre i manifestanti ne pretendevano quattro, i tre anni e tre mesi sono stati il primo compromesso importante.

Il generale Atta, rappresentante del Consiglio militare, ha precisato che i primi sei mesi di questa fase transitoria saranno dedicati a concludere accordi di pace con i movimenti ribelli dell’ovest e del sud del Sudan; inoltre, Madani Abbas Madani, un rappresentante dell’Alleanza per la Libertà, riferisce che il sistema governativo sarà composto da tre organi: un Consiglio esecutivo, formato da membri del Consiglio militare e dell’Alleanza delle opposizioni; un Consiglio dei ministri, che sarà votato dall’alleanza delle opposizioni, e un’Assemblea legislativa che comprenderà trecento membri di cui il 67 per cento sarà rappresentato dai manifestanti, riuniti sotto il simbolo Alc, ed il 33 per cento sarà espressione dalle forze politiche non affiliate all’Alc, previa approvazione da parte del Consiglio esecutivo.

Al di à della discutibile struttura organizzativa prevista per lo Stato, non proprio conforme ai tradizionali bilanciamenti dei poteri, ma sicuramente confacente alle esigenze politiche del momento (sarebbe interessante vedere l’elaborazione della futura Costituzione, in ambito di libertà religiosa e diritti umani), la “questione” che ha maggiormente intralciato i negoziati tra militari e civili, è stata quella dell’“immunità” per i militari artefici delle stragi durante i mesi di protesta. Infatti la posizione dei rappresentanti dei manifestanti è che i militari autori di violenze dovranno essere processati appena le condizioni della nuova organizzazione statale saranno idonee a procedere; tuttavia i militari sostengono che si dovrà valutare una “immunità assoluta”, ritenuta impossibile in una comunicazione ufficiale data da Ismail al-Taj, portavoce dell’associazione dei professionisti sudanesi (Spa): “Noi rifiutiamo l’immunità assoluta che i governanti militari hanno chiesto”, anche se il portavoce del Consiglio militare, il generale Shamseddine Kabbashi, ha dichiarato che: “Non c’è disputa sull’immunità”.

Va ricordato che Mohamed Hamdan Daglo detto “Hemeidti”, sottoscrittore dell’accordo e numero due del Consiglio militare, è anche comandante delle famigerate e temute Forze di Supporto Rapido (Rsf) ed anche garante degli “affari” dei Paesi del Golfo in Sudan. Questi gruppi paramilitari, svincolati dal Comando militare centrale, durante le sommosse sono stati autori di numerosi omicidi compiuti ai danni dei manifestanti (solo il 3 giugno in un raid durante un sit-in dei manifestanti nel campo di fronte al quartier generale dell’esercito, sono state uccise 136 persone - i manifestanti e le Ong individuano i paramilitari delle Rsf come autori) e di altre violenze e stupri a carico della popolazione (ricordo le note immagini delle mutandine strappate alle ragazze e appese ai kalashnikov come trofeo).

Dopo la tragedia del 3 giugno, i militari hanno interrotto le comunicazioni di rete; il 16 luglio il collegamento internet è stato ripristinato a seguito di una causa contro i fornitori di rete intentata da Abdelaziz Hassan, avvocato di Khartoum,. Le immagini che molti sudanesi non avevano mai visto, sono diventate virali e largamente condivise sui social network, causando shock e rabbia tra la popolazione. Alcune interviste hanno rivelato punti di vista diversi: uno studente della Al-Deen University ha detto che gli autori delle violenze “non hanno pietà, religione o umanità”; altri sostengono che la visione dei terrificanti video possa essere un deterrente ad eventuali ulteriori proteste, anche se lo scopo iniziale del blocco della rete era quello di nascondere informazioni e prove su quanto successo durante lo scempio; “effetti collaterali” di una comunicazione di massa quasi sempre ingestibile e ulteriore divisione tra civili e militari visti anche i “gruppi di potere” extra Sudan e filo militari, che non vedono di buon occhio un governo di civili.


di Fabio Marco Fabbri