Il Sudan tra sharia e militari

La Repubblica del Sudan, Stato africano-arabo-islamico, è oggi al centro dell’attenzione internazionale a causa delle violenze che si stanno perpetrando ai danni della popolazione sudanese che subisce persistenti drammatiche condizioni economiche e politiche. Va ricordato che la Repubblica sudanese, nata il 1 gennaio 1956, data della sua indipendenza dall’“abbraccio” colonialista anglo-egiziano, si sviluppa intorno ad una congenita divisione etnico-religiosa, tra un’area territoriale del Nord, a maggioranza araba e di religione islamica, ed un’area del Sud dove prevale il gruppo etnico nero, di religione cristiana e animista, con l’élite del Nord che si impone nel sistema governativo nazionale e che, al momento della scelta, ha aderito alla Lega Araba piuttosto che al Commonwealth.

Su queste complesse basi sociologiche si organizza un apparato governativo che si sostiene su concetti di prevaricazione etnica, considerando che nell’ambito della “percezione dell’epoca”, la “cultura araba” veniva ritenuta predominante su quella autoctona africana. Tale assetto creò immediatamente una forte divisione tra nord e sud con la conseguenza di una cronica instabilità politica che portò, prima ad un colpo di Stato del generale Ibrahim Aboud, nel 1958, rimasto al potere fino al 1964, poi ad avvicendamenti tra regimi militari, e tentativi di democratizzazione, ed una serie di drammatiche guerre civili. Alla fine degli anni Sessanta subentrano (come già da alcuni anni nel resto del Nord Africa), le influenze social-comuniste di espressione sovietica; infatti il maresciallo Djafar al-Nimeiri, con la prassi del colpo di stato, prende il potere appoggiato dal Partito Comunista Sudanese e dalla Urss, promettendo l’autonomia del Sud del Paese; tuttavia il “Partito” dei Fratelli Musulmani (in quegli anni rafforzato dopo la sconfitta subita dall’Egitto nasseriano, loro persecutore, nella guerra dei 6 giorni), e il movimento spirituale islamico/messianico, sciita, dei mahdisti di Umma, non ne riconoscono l’autorità.

Nel 1972 dopo oltre quindici anni di guerriglia, con l’accordo di Addis Abeba, il Sudan del Sud, acquisisce lo status di autonomia. Gli anni successivi sono una coacervo di interessi economici legati al petrolio, di interessi internazionali sulla regione, cambiamenti di “partner”, dalla Urss agli Usa, nascita di partiti di Liberazione, annullamento dell’accordo di Addis Abeba, opportunismo politico. Inoltre il colpo di stato del generale Omar al-Bashir (1989), sostenuto dal Fronte nazionale islamico (Fni), guidato da Hassan al-Tourabi, oltre che proibire l’esistenza dei partiti politici, porta all’introduzione della sharia su tutto il territorio nazionale, vanificando gli accordi precedentemente raggiunti con l’Elps (Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan - per l’indipendenza del Sudan del Sud). Tale situazione acuisce e conclama il doloroso problema sociale e politico del Darfur (pulizia etnica o genocidio); ma determinante, in questa articolata situazione politica, è la “Questione meridionale sudanese”, che è uno degli “anti-pilastri” che caratterizza gli squilibri globali nazionali.

Brevemente, la fine della Seconda guerra civile sudanese (1893- 2005) condurrà verso un lungo tracciato che culminerà con il referendum sull’indipendenza del Sudan del Sud, nel 2011, autonomia conquistata con quasi il 99 per cento delle preferenze. Viene così ridefinita, oltre che una divisione etnica e religiosa, anche una incompatibilità sociale dimostratasi insuperabile. Al-Bashīr, dopo 25 anni di presidenza ed una riconferma nel 2015 con il 94% dei consensi, nell’aprile 2019, dopo una crisi generale esplosa nel dicembre 2018, viene destituito a seguito di un colpo di stato dei militari, che annunciano la formazione di un governo di transizione. Il Consiglio militare transitorio (Tmc) con sede a Khartum, ha annunciato la cancellazione di tutti gli accordi precedentemente fatti con l’opposizione politica, negando anche i negoziati con Lra (Alleanza per la libertà e il cambiamento) principale oppositore; il generale Abdel Fattah al-Burhane, capo del Consiglio (o Comitato) militare, ha dichiarato alla televisione nazionale, l’annichilimento di ogni tipo di rapporto con qualsiasi forma o organizzazione politica non in linea con il Consiglio, affermando che le elezioni si terranno entro nove mesi, sotto la “supervisione regionale e internazionale”. Il capo del Consiglio militare, Burhane, ha anche espresso la volontà di indagare sulla strage del sit-in di protesta di lunedì 3 giugno, che ha lascito sulla strada più di 30 morti; tuttavia il generale ha negato qualsiasi “dispersione forzata” del sit-in a Khartoum.

Il popolo sudanese ha protestato per le gravi difficoltà economiche che attanagliano lo Stato africano, ha lottato per la deposizione di Omar al-Bashir, si ritrova il giorno dell’Eid-el-Fitr (fine Ramadan), con un altro generale, Abdel Fattah al-Burhane presidente del Tmc, che permette il “soffocamento” delle proteste popolari. Per ora, quello che si scorge è la morte della speranza di vedere nascere una transizione democratica tramite un negoziato tra civili e militari, ed anche la morte di quella “filosofia” che vedeva nella protesta uno strumento di rivalsa/rappresentanza sociale, anche con la memoria di quanto accaduto l’11 aprile 2019 con la deposizione dell’ex presidente, quando le masse radunate antistante il quartier generale dell’esercito, avevano garantita la loro protezione da autorevoli personaggi appartenenti alla sfera militare, in contrapposizione ai servizi di sicurezza governativi.

Come accade quasi sempre la strumentalizzazione delle masse si dimostra come uno strumento in mano ai burattinai della politica che, grazie al consenso del popolo, ottengono successi personali. In questo contesto la onnipresente Francia, anche fuori dai suoi tradizionali e storici “campi di interesse”, ha immediatamente preso la strada del “pacificatore”, dichiarando, tramite l’infaticabile ministro degli Esteri, la “condanna delle violenze commesse negli ultimi giorni in Sudan nella repressione delle manifestazioni”; chiedendo l’avvio di un immediato negoziato tra il Comitato militare transitorio e l’opposizione, in modo da poter trovare un accordo sulle istituzioni di transizione, esortando il popolo sudanese ad astenersi da qualsiasi azione violenta che possa pregiudicare una transizione pacifica. Tuttavia con la memoria della storia dei rapporti geopolitici, espressi nelle sempre più numerose “aree di crisi”, posso affermare, che gli atteggiamenti della diplomazia internazionale, oltre ad essere una “rappresentazione” già rivista, tendono sempre più spesso a ad adottare modalità comportamentali tali che visti i risultati, ritenerli inefficienti è ottimistico.

Aggiornato il 05 giugno 2019 alle ore 11:05