Algeria in piazza tra speranze di cambiamento e rischio Libia

Le manifestazioni di protesta in Algeria non si fermano. Secondo la Bbc un milione di persone si sarebbe infatti riversato lo scorso venerdì per le strade della capitale. Obiettivo dei manifestanti la fine dell’era Bouteflika, il presidente che ha cavalcato la scena politica per ben un ventennio. Al potere dal 1999, il leader algerino nel 2013 è rimasto fortemente debilitato da un ictus, che ha ridotto al lumicino le uscite in pubblico del presidente, facendo sorgere più di un dubbio sulla sua reale capacità di guidare il Paese.

La possibilità della ricandidatura di Bouteflika per il quinto mandato consecutivo (smentita ufficialmente solo l’11 marzo) era stata all’origine di manifestazioni e scontri sin dal 22 febbraio. Da quel giorno le piazze algerine hanno ospitato ogni venerdì imponenti proteste contro l’establishment al potere, che non sono cessate neanche dopo l’annuncio del presidente di non ripresentarsi.

Diverse le cause che continuano ad alimentare il malcontento del popolo algerino (composto per il 60 per cento da giovani sotto i 40 anni), a cominciare da un tasso di disoccupazione sopra l’11 per cento (con quella giovanile che si attesta intorno al 30 per cento), dalla stagnazione del Pil pro capite, dai pesanti attacchi alla libertà di stampa e dagli alti livelli di corruzione percepita. Tutti elementi, questi, che si sono condensati nelle contestazioni a cui stiamo assistendo.

Il corteo di venerdì assume un’importanza cruciale perché svoltosi dopo le dichiarazioni del generale Ahmed Gaid Salah, che aveva sconfessato il presidente lo scorso 25 marzo, definendolo “non più in grado di governare”. Una presa di posizione determinante: la Costituzione algerina prevede infatti che un presidente diventato inidoneo a espletare le proprie funzioni politiche possa essere destituito dal Consiglio costituzionale. Non c’è dunque alcun dubbio che la parabola di Abdelaziz Bouteflika stia per giungere al termine.

Molto meno semplice è invece delineare i possibili scenari futuri una volta esautorato il presidente. La scelta di posticipare per la fine del 2019 le elezioni, inizialmente fissate per il 18 aprile, appare come un escamotage per guadagnare tempo, senza però che gli apparati algerini sappiano con precisione le mosse da intraprendere. Il passo indietro fatto fare a Bouteflika dalle Forze armate non sembra aver placato i manifestanti, che anzi vedono aprirsi delle falle nel sistema, incoraggiandoli a persistere nel muro contro muro.

Le legittime richieste della società algerina, desiderosa di diritti e libertà, rappresentano sicuramente un patrimonio positivo da coltivare ma bisogna fare attenzione alle criticità che appaiono all’orizzonte. Sono passati solo pochi anni da quando analisti e politici occidentali magnificavano acriticamente le primavere arabe senza vederne i rischi di destabilizzazione e radicalizzazione. Oggi corriamo lo stesso pericolo. Le vicende di Libia e Siria dovrebbero farci riflettere sull’infiammabilità di certe crisi e sulla necessità di valutarle lucidamente.

Non dobbiamo commettere la leggerezza di ignorare le ripercussioni sul medio-lungo periodo degli sviluppi odierni, tanto più che interessano un Paese strategicamente cruciale per il Mediterraneo. Diversi dossier rendono l’Algeria un attore imprescindibile per la stabilizzazione dell’area. Non si parla solamente della questione migratoria o del mosaico libico, dove pure il ruolo di Algeri è tutt’altro che secondario, ma anche dell’impatto che un avvitamento della crisi avrebbe sull’approvvigionamento energetico di molti Stati europei, a cominciare dall’Italia, che importa da Algeri più di un terzo del proprio fabbisogno di gas naturale. Ragioni, queste, che dovrebbero spingere il Vecchio Continente a sostenere la crescita algerina, per combattere le diseguaglianze interne e placarne i contrasti, rispettandone al tempo stesso l’indipendenza e la volontà popolare.

Aggiornato il 01 aprile 2019 alle ore 11:58