Le minacce di morte che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha indirizzato ad australiani e neozelandesi non rappresentano il mondo musulmano. Lo ha precisato in un articolo il quotidiano internazionale Arab News, definendo “vili” i commenti di Erdogan a seguito dell’attacco terroristico di matrice razzistica alle moschee di Christchurch avvenuto il 15 marzo. Oltre a richiedere l’instaurazione della pena di morte in Nuova Zelanda o l’estradizione dell’autore del massacro, Brenton Tarrant, in modo che sia la sua Turchia neo-ottomana a fare giustizia, Erdogan si è rivolto agli australiani e ai neozelandesi che il 25 aprile di ogni anno si recano nella penisola turca di Gallipoli per commemorare le migliaia di connazionali caduti in una storica battaglia della Prima guerra mondiale. “I vostri nonni tornarono nelle bare. Vi rimanderemo indietro come loro”, ha affermato. “Non cambierete Istanbul in Costantinopoli”, ha poi aggiunto, rilanciando la sfida sul piano dello scontro di civiltà: nel 1915, i “nonni” degli australiani e dei neozelandesi di oggi si sarebbero infatti recati in Turchia “perché cristiani” intenzionati a conquistare una terra musulmana.

Simili esternazioni non potevano non scatenare una crisi diplomatica con Australia e Nuova Zelanda, con tutti i rituali del caso, mentre i media si sono limitati a inserirle nel contesto delle elezioni amministrative che si svolgeranno in Turchia alla fine di marzo. Come se Erdogan avesse voluto strumentalizzare quanto accaduto in Nuova Zelanda semplicemente a fini di politica interna. Non c’è dubbio che mostrando il filmato realizzato dallo stesso attentatore durante un comizio abbia voluto scaldare gli animi del suo elettorato di riferimento. Ma (ri)giocando la carta dell’islamofobia imbracciata come un’arma dall’Occidente cristiano contro i musulmani, non si è lasciato sfuggire l’occasione per proiettarsi nuovamente nel ruolo di leader assoluto dell’umma mondiale. Un messaggio pienamente colto tanto dal mondo arabo moderato - che si riconosce nei Paesi del Quartetto antiterrorismo composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto, e che ha affidato ad Arab News la sua risposta al presidente turco - quanto dalla rete transnazionale islamista che fa capo ai Fratelli Musulmani, avversata dal Quartetto e patrocinata dalla Turchia di Erdogan, appunto, e dal Qatar degli emiri Al Thani.

Ma non solo. Erdogan ha voluto toccare le corde anche di quei musulmani rimasti intrappolati nella gabbia delle distorte narrative dell’Isis, a cui intende fare concorrenza ponendosi egli stesso come punto di riferimento ideologico dell’internazionale jihadista. Tra il messaggio erdoganiano e le dichiarazioni infuocate post-Christchurch dell’Isis, che ha esortato “i sostenitori del califfato a vendicare la propria religione”, non c’è differenza sostanziale. Quella di Erdogan è una chiamata alle armi diretta contro l’Occidente e non è la prima volta che il presidente turco ed esponenti del suo partito si esprimono senza mezzi termini in tal senso.

D’altro canto, l’idea secondo cui l’Isis in Siria e Iraq non rappresentasse un problema per Erdogan è stata diffusa nel corso degli ultimi anni da un numero significativo di autorevoli analisi e report. Il più recente è stata elaborato dallo statunitense International Center for the Study of Violent Extremism, che ha intervistato quello che gli autori definiscono “l’ambasciatore dell’Isis in Turchia”, Mansour Al Maghrebi. Il jihadista di origine marocchine racconta della sua “avventura” da trait d’union nelle relazioni tra Raqqa e Ankara, gettando luce sulla rete di numerosi membri dell’Isis attivi all’interno del territorio turco, dove venivano fornite cure mediche ai membri dell’organizzazione e finiva il petrolio con questa contrabbandato. Al Maghrebi conferma, inoltre, il “doppio gioco” sui foreign fighters svolto dall’intelligence di Erdogan, che fingeva di adottare provvedimenti per prevenire il fenomeno in modo da rabbonire i Paesi “alleati” della Nato, favorendone al contrario l’ingresso dalla Turchia alla Siria.

Perché tutto questo? Perché l’ambizione personale di Erdogan, spiega Al Maghrebi, era quella d’inglobare la fascia di territorio che va da Aleppo, nel nord della Siria, a Mosul in Iraq e non per tenere sotto scacco i curdi, priorità invece di altri membri del governo turco, ma per ristabilire l’impero ottomano: “Questa è l’ideologia islamista di Erdogan”, che considerava l’Isis come un proxy-state attraverso cui controllare l’area, mentre oggi punta a controllarne affiliati e simpatizzanti sparsi in tutto il mondo per raggiungere il medesimo obiettivo.

Sull’onda del massacro di Christchurch, il pericolo è pertanto quello di una nuova saldatura non dichiarata con il jihadismo, che consentirebbe a Erdogan di continuare il “doppio gioco” con l’Occidente, tenendolo costantemente sotto ricatto al fine di far avanzare il proprio progetto di conquista, condiviso con il Qatar e i Fratelli Musulmani.

Aggiornato il 25 marzo 2019 alle ore 13:20