Lo Yemen è una terra senza Dio, una provincia vuota. Sarebbe non solo possibile ma anche facile da catturare, e se fosse catturato, sarebbe padrone delle terre dell’India e si potrebbe mandare ogni anno una grande quantità di oro e gioielli a Costantinopoli”.

Questa citazione fu pronunciata nel 1538 dall’eunuco ungherese Hadim Suleiman Pasha (hadim significa eunuco in turco), che guidò l’esercito ottomano verso il territorio yemenita al fine di conquistare Aden e Diu, e sottolinea la strategica posizione di questa area, rimasta tale nel tempo.

Lo Yemen vive da più di un decennio un conflitto interno mortale, che iniziato come una instabilità tra fazioni avverse, è nel tempo diventato centro di pericolose “attenzioni”, prima da parte dei paesi dell’area arabica, poi richiamando “appetiti” internazionali. Lo Yemen sta vivendo uno dei suoi più complessi corsi storici: oltre 12mila yemeniti hanno perso la vita, più di duemilioni sono sfollati, le cifre sono indicative causa la difficoltà di avere un censimento esatto vista anche la forte dinamicità umana che certi eventi provocano, ciò sta causando una crisi umanitaria di grandi proporzioni in un contesto dove le azioni filantropiche hanno difficoltà ad operare.

Il “profilo” dello Yemen non è cambiato nei secoli; la marginalità della collocazione e la proiezione verso l’Africa nera con le strategiche risorse “nazionali”, hanno sempre reso la Repubblica presidenziale estremamente ambita. Lo Yemen prima del 1990 era diviso in due aree: lo Yemen Meridionale, colonia britannica dal 1839, raggiunse l’indipendenza nel 1967, con capitale Aden; lo Yemen Settentrionale, con capitale Sana’a, non ebbe colonizzazione, vivendo autonomamente i processi di sfaldamento dell’Impero Ottomano e l’influenza degli attigui e invadenti cugini wahabiti. Il popolo dell’area yemenita ha vissuto due storie decisamente diverse che non hanno lasciato indenne la loro percezione politica, confessionale e sociologica della “coabitazione”. L’odierna Repubblica dello Yemen nasce dall’unione di queste due diverse “storie”; nel mese di maggio del 1990, quando la fusione tra la Repubblica Araba dello Yemen (Yemen del Nord) e la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (Yemen del Sud) si compie, si formalizzano anche i confini, frutto di lunghi negoziati e onerose operazioni diplomatiche iniziate dalla Monarchia Britannica, prima con l’Impero Ottomano, poi con l’Arabia Saudita. Le due ex capitali si sono differenziate, in questi ultimi anni, con peculiarità che ne hanno determinato i ruoli: Sana’a è la capitale politica dello Yemen, mentre Aden è una sorta di “capitale” economica. I punti di frizione fra le due aree geografiche sono endemiche e si palesano tra contese di origine tribale, territoriale e confessionale che sfociano nel politico, inoltre tutto ciò è “farcito” dalla radicata piaga della corruzione. Gli attriti tra Nord e Sud dello Yemen sono esplosi nel 2004, ed hanno conclamato l’antagonismo tra la comunità sciita (setta Zaidi Shia ) degli Houthi che rivendica, alla compagine governativa, un ruolo non marginale nella gestione “politica” del potere. Nel 2011 il conflitto si intensifica a causa del fallimento di una transizione politica che avrebbe dovuto stabilizzare lo Yemen, infatti, in seguito alle rivolte della Primavera araba, il presidente, Ali Abdullah Saleh, fu costretto a consegnare il potere al suo vice Abdrabbuh Mansour Hadi. Hadi ha fronteggiato jihadisti e separatisti del Southern Transitional Council (Stc) del sud, ha lottato contro l’insicurezza alimentare, la corruzione e la disoccupazione; fu costretto, tuttavia, a dimettersi nel 2015 e rifugiatosi poi ad Aden, la dichiara capitale politica dello Yemen (ma senza riconoscimento alcuno). Dopo l’assassinio del suo predecessore e contendente Saleh nel 2017, Hadi è oggi riconosciuto dalla Comunità internazionale come Presidente, ma con enormi difficoltà nel gestire i poteri del suo ruolo soprattutto all’interno.

Gli scontri fra “l’ex Nord e Sud dello Yemen” si sono moltiplicati in un sistema politico confuso, fino al 2014, quando i ribelli Houthi conquistarono la capitale Sanaa, elevando il livello degli interessi sul piano geopolitico. Infatti, il coinvolgimento dell’Iran a protezione e tutela degli Houthi (sciita) e la contemporanea presa di posizione filogovernativa dell’Arabia Saudita, appoggiata da Emirati Arabi, Kuwait, Bahrain, Egitto e Giordania (sunniti), a protezione dello status quo, fa innescare una serie di interessi e obiettivi di carattere geostrategico e geoeconomico, che creano l’ennesimo “pantano sociologico Vicinorientale”. L’Onu definisce la situazione in Yemen come il più grave disastro umanitario in atto: oltre che morti, feriti e sfollati, in uno Stato fallito come lo Yemen, le carestie le pandemie, le meno valutate e gravissime dissociazioni sociologiche e psicologiche, hanno fatto nascere una crisi umanitaria difficilmente risolvibile in tempi brevi. Inoltre tale situazione, se viene letta con una visione più ampia, fa scorgere anche degli “effetti collaterali” complessi politicamente e sociologicamente degeneranti: infatti lo Yemen è diventato il biotopo ideale dei jihadisti, sia per quelli endemici alla Penisola araba come Al-Qaida (Aqpa), sia per quelli fuoriusciti dall’ex sedicente Stato Islamico, che ritrovano, nell’ambito della “granularizzazione” dell’Isis, e in un sistema politico pseudo anarchico, una loro “ricollocazione” quantomeno territoriale; ricordando che lo Yemen è la terra natale della famiglia bin Laden. Il ruolo della Francia è apparentemente “bipolare”: da una parte il Quai d'Orsay (sede del Ministero degli Esteri francese) sostituendosi all’Eliseo, organizza incontri bilaterali con l’Arabia Saudita a fine pacificatorio e con lo scopo di proteggere i convogli umanitari che si adoperano per la popolazione yemenita, dall’altra forniscono da anni (come la Gran Bretagna) armamenti al Regno wahabita, anche i famigerati cannoni Caesar, che utilizzano, come accusano le Ong presenti in loco, per bombardare i ribelli Houthi, ma colpiscono anche due ospedali gestiti da Médecins Sans Frontières (Msf). Ad oggi Teheran e Riyadh, hanno combattuto tramite “intermediari”, non risultano realmente predisposti ad un coinvolgimento diretto dei rispettivi eserciti, ma un attacco missilistico di successo diretto a Riad, dallo Yemen, potrebbe sconvolgere la bilancia degli equilibri, considerando che Israele ha assunto una posizione “politica” filo-saudita, in contrapposizione all’Iran e che la Siria (sciita-alawita) e l’Iraq (a prevalente guida sciita ma legata a Washington) sono molto vicini a Teheran. In conclusione, la complessa crisi yemenita non poteva non interessare anche gli Stati Uniti, infatti Trump ha appoggiato risolutamente la causa Saudita, per dare una “concreta” opposizione all’Iran. Intanto il Senato Usa, mercoledì 13 marzo ha causato un altro “dispiacere” a Donald Trump, approvando una risoluzione che lo esorta a interrompere il sostegno all’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, a seguito dal “turco affare Khashoggi”.

 Ma lo Yemen subisce soprattutto una crisi umanitaria ormai infiammata anche da interessi globali, che sta diventando sempre più allarmante in un ambito di guerra, dove la miseria si amalgama con l'orrore delle epidemie e la popolazione è spinta nella sua peggiore restrizione per cercare di resistere alla carestia: le famiglie fanno sposare le loro figlie, a volte anche di tre anni, nella speranza di guadagnare una dote per poter essere in grado di nutrirsi magari per qualche giorno; tutto ciò accade fuori dal “radar delle notizie”.

Aggiornato il 25 marzo 2019 alle ore 13:33