Nuova Zelanda: tra vuoto esistenziale e pseudo fanatismo religioso nella “Chiesa di Cristo”

Christchurch fu fondata intorno alla metà del 1800, quando John Robert Godley, un inglese esponente del partito tory, volle organizzare una società basata sulla collaborazione politica tra la nobiltà e gli ecclesiastici. Il partito tory costruì i suoi principi ideologici su due punti fondamentali: la non tolleranza religiosa, considerando la Confessione anglicana l’unica forma di fede osservabile e sostenendo che il potere regio dovesse sempre predominare su quello parlamentare. Christchurch nasce su queste basi come tutta la Monarchia parlamentare neozelandese.

La presenza musulmana in Nuova Zelanda ha una storia recente, risale agli ultimi decenni del 1800, e ha una fisionomia non araba ma asiatica; i primi musulmani che raggiunsero la Nuova Zelanda erano asiatici, avventurieri, cercatori d’oro e lavoratori dell’industria mineraria, non stanziali fino agli inizi del secolo successivo, quando iniziarono ad organizzarsi e ad aumentare numericamente, raggiungendo circa 15mila unità intorno alla metà del secolo. Gradualmente e senza problematiche sociali integrative, nascono in tutte le regioni dello Stato associazioni islamiche, poi coordinate ed accentrate, nel 1979, nella Federazione delle associazioni islamiche neozelandesi.

Oggi la comunità musulmana è organizzata con quattro moschee, nella regione di Auckland una chiesa è stata trasformata in un tempio islamico, sono stati acquistati terreni per le sepolture con rito musulmano, e vi sono canali televisivi con connotazione islamica. Circa i dati demografici sulla presenza musulmana in Nuova Zelanda, fino ad alcuni anni fa non vi erano informazioni attendibili, ma un recente studio che analizza le minoranze musulmane in generale, pubblicato nel 2017, frutto di una collaborazione tra le università australiane, neozelandesi e l’Università iraniana di Mazandaran, ha sanato questa carenza e presenta la comunità in esame composta da 35 nazionalità: il 20% circa sono figiani, l’8 per cento è di origine irachena e il 6% di origine afgana, in oltre, sono presenti, con percentuali poco rilevanti, solo per citarne alcune, musulmani provenienti dal Pakistan, dall’India, dalla Somalia, dall’Iran, dalla Malesia, dal Bangladesh e dall’Indonesia.

L’età media dei musulmani neozelandesi è di 25 anni contro la comunità cristiana che ha una età media di 40 anni. Il livello di istruzione è maggiore tra i musulmani di origine indiana e bangladese, molto bassa tra i fedeli di origine afghana e somala, ciò conduce ad una maggiore difficoltà di occupazione di questi ultimi. Ma il dato che ritengo debba essere ben stimato, è quello presentato da Yaghoob Foroutan (docente e ricercatore presso Western Sydney University e presso l’Università di Mazandaran in Iran), studioso di demografica legata al mondo islamico, inerente la forte crescita della popolazione senza affiliazione religiosa, che passa dal 27 per cento nel 2001, al 31,5 per cento nel 2006 e al 42 per cento nel 2013, intorno al 46 per cento nel 2017. Va considerando, inoltre, che la metà della popolazione è ancora cristiana, è presente una piccola comunità buddista, e che la comunità musulmana, in Nuova Zelanda, contava 6mila fedeli nel 1991, 36mila nel 2006, 46mila nel 2013 e quasi 53mila nel 2017, considerando anche i convertiti di origine occidentale.

In una proiezione che tiene in esame il trend di crescita, si può prevedere che potrebbe raggiungere il 2% della popolazione neozelandese nel 2030, superando i centomila adepti. Altro elemento di estremo interesse sociologico è quello riguardante il drammatico fenomeno dei suicidi tra i giovani; la Nuova Zelanda, questa terra, che nell’immaginario collettivo, appare amena e lussureggiante, con una natura pennellata da pastorali pascoli, colline e fiordi, suggestive montagne innevate, nasconde delle realtà sociali che la classificano con un tasso di suicidi giovanili tra i più alti, sia se confrontati con i Paesi “occidentali”, sia se confrontati a livello mondiale.

Le cause di questo disagio vengono riscontrate non solo sulla popolazione più fragile, come i Maori (attualmente occupano il 15 per cento della popolazione, ma sono il 50 per cento dei detenuti nelle carceri neozelandesi), spesso poco considerati (se si esclude la tradizione espressa nello sport nazionale, il rugby), nativi della Polinesia e scampati alle invasioni inglesi, ma anche sulla popolazione “autoctona” di origini europea. Le percentuali di suicidi che si verificano ogni anno sono toccanti: una media di quasi 600 con tendenza alla crescita; le cause principali vanno ricercate in disagi mentali che attingono al fenomeno dell’isolamento, alla povertà, alla disoccupazione, alla incompatibilità ambientale generalizzata ed anche alla impossibilità a raggiungere, da parte degli adolescenti, quella visione stereotipata della “virilità” espressa dagli sportivi, specialmente Maori. Lo studioso di fenomeni sociali Shyamala Nada-Raja, sostiene, brevemente, che i suicidi siano causati dalla grande difficoltà della giovane e immatura popolazione neozelandese, a capacitarsi della propria identità; anche Otago Moira Clunie, dell’Istituto Mentale della Nuova Zelanda afferma che: “Il fatto di riconoscere una propria identità è una forza protettiva nei confronti del suicidio, ma in Nuova Zelanda manca ancora un senso di appartenenza comune e una storia culturale collettiva”.

Senza dubbio questi dati stimolano anche delle analisi antropologiche, che meriterebbero approfondimenti, tuttavia ad oggi possiamo porre sul piatto della bilancia alcuni di questi fattori: la difficoltà di sentirsi associati ad una identità, la difficoltà tra i non “identificabili” ad unirsi, il conseguente isolamento, la forte percentuale della popolazione non “affiliabile” religiosamente e sull’altro piatto magari una società considerata culturalmente aliena ai principi fondanti della Nazione, nemica, che magari apparentemente presenta una omogeneità religiosa comunque compattante e visibilmente identificabile.

Verosimilmente l’ex borderline 28enne australiano Brenton Tarrant (ricordando che l’Australia è nella classifica dei suicidi poco inferiore alla Nuova Zelanda), è oggi un carnefice alla stregua dei suoi omologhi jihadisti, ed è la sintesi di un “disagiato confuso” che attanaglia la maggior parte delle comunità oceaniche, influenzato, anche nell’eseguire il suo plateale gesto, da una visone globale, empiricamente testata, che non dà speranze di dialogo, ma stimola il fanatismo e fertilizza un vuoto esistenziale. Analizzando meglio i dati brevemente riportati, potrebbero sorgere anche forti dubbi se le vere motivazioni siano di matrice religioso/politica o se la strenua ricerca di un capro espiatorio al “frenetico disagio”, aiutato da una vacuità globale, abbia determinato tale gesto, decisamente e forse consciamente non risolutivo.

Aggiornato il 20 marzo 2019 alle ore 11:45