Capire la “Marcia del Ritorno” di Hamas

lunedì 16 aprile 2018


Qual’è stato il motivo del numero relativamente alto di vittime palestinesi nelle prime due ondate della cosiddetta “Marcia del Ritorno”? Per qualcuno la risposta preconfezionata è “la brutalità israeliana” e il grilletto facile dell’Idf: persino tra gli israeliani c’è chi ha parlato di soldati che hanno aperto il fuoco contro “manifestanti” disarmati. Il procuratore generale dell’Icc, Fatou Bensouda, ha pensato bene di ammonire entrambe le parti, facendo anche un raro riferimento all’abitudine dei palestinesi di nascondersi dietro i civili, oltre che all’uso di proiettili veri da parte dell’Idf. Alcune frasi avventate da parte di politici israeliani (“a Gaza non esistono innocenti”) hanno aggiunto benzina sul fuoco. Ma l’accusa di aver attaccato civili in maniera premeditata non quadra con i sistematici sforzi compiuti negli ultimi anni dall’Idf sotto il comando del generale Gadi Eisenkot per gestire saggiamente il conflitto e per ridurre il livello di attrito con i palestinesi, ove possibile. E mal si adatta al ruolo attivo di Israele, riconosciuto persino dal Qatar, nei recenti sforzi della Casa Bianca per migliorare le condizioni di vita a Gaza. L’appellativo di assassini razzisti proprio non si addice al caso, e nel duro dibattito interno ad Israele, queste accuse hanno fatto infuriare persino i più severi critici delle politiche dell’attuale governo.

La spiegazione è da ricercare altrove, e la prima cosa da comprendere è la specifica topografia del confine con Gaza. Per forza di cose, l’Idf deve negare l’accesso alla rete di protezione, data la prossimità al confine di vari kibbutz, oltre alla città di Sderot. A seguito del triste primato di violenza che aveva già portato a tre distinte fasi di intensi scontri da quando Hamas prese il potere in un colpo di Stato militare nel giugno del 2007, si decise di designare un perimetro minimo di qualche centinaio di metri appena all’interno della striscia di Gaza, dove è vietato accedere senza un previo coordinamento attraverso i canali ufficiali, ed esempio tramite gli egiziani. Se questa politica non viene rispettata si rischia di creare una presenza permanente di civili mischiati a terroristi proprio a ridosso della linea di confine, oltre che al probabile ritorno alla coltivazione dell’area, che darebbe rifugio e copertura a tiratori ed a squadre di penetrazione, sia di Hamas, della Jihad Islamica palestinese (supportati dall’Iran) o dei vari gruppi jihadisti salafiti e i vari cloni dell’Isis che sono spuntati a Gaza sulla scia degli sviluppi regionali.

E quindi, Israele avverte di non avventurarsi all’interno del perimetro non perché voglia “sopprimere le proteste”, ma perché le vite dei residenti al confine con Gaza verrebbero esposte quotidianamente a gravi pericoli, se la barriera non venisse protetta. Gli avvertimenti sono stati molti, ripetuti, e in tutte le lingue. Di fronte a masse di persone mandate in maniera deliberatamente all’interno di una zona militare, l’Idf ha scelto la tattica di affrontare gli attivisti che hanno tentato di arrivare alla rete di confine e di oltrepassarla. Le vittime – tenendo conto di possibili errori di identificazione, come ad esempio quello del giornalista che stava manovrando un drone all’interno delle linee israeliane – erano per la maggior parte, se non tutti, attivisti di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche. Nella lunga lista dei feriti ce ne sono molti colpiti da armi non letali. Eppure Hamas ha continuato a mandare gente di venerdì in venerdì.

La motivazione, espressa senza mezzi termini dal Primo Ministro di Gaza Yahia Sinwar (un assassino condannato, liberato da Israele dopo 22 anni di carcere grazie agli accordi di Gilad Shilat), è che con queste tattiche Hamas vuole cancellare il confine. Ovviamente questo vorrebbe dire cancellare la popolazione israeliana all’interno dell’area di confine e culminerebbe – data la visione di Sinwar di entrare da conquistatore nella moschea di Al-Aqsa - nella cancellazione dell’intera Israele. Dopotutto, malgrado alcune recenti apparenze, Hamas non ha mai accettato il diritto di Israele di esistere su nessuna parte di quello che considera territorio palestinese. Spingere la folla, tra cui donne e bambini, a marciare è il tentativo di Hamas (l’iniziativa è solo in apparenza frutto di un accordo tra gruppi diversi; è ovviamente guidata dai servizi di sicurezza di Hamas) di vincere l’aspra battaglia interna per il dominio della società palestinese.

La mancata riconciliazione con i palestinesi – motivata soprattutto dalla volontà di Hamas di non consegnare le armi – ha posto i leader del movimento in una posizione delicata. A Gaza si sperava in una vita migliore sotto il governo dell’Autorità Palestinese (più corrotto, forse, ma meno brutale di Hamas). Nel novembre 2017, ha notato Memri, Al-Jazeera parlava di un boom di consumi nella Striscia, della costruzione di dieci nuovi centri commerciali, dozzine di ristoranti, e qualche hotel. Ma il tutto era basato sull’aspettativa che si sanasse la frattura interna ai palestinesi e che tornassero, almeno parzialmente il potere (e i fondi) dell’AP. Il dialogo si è risolto in un nulla di fatto, seguito dal tentativo di assassinare il Primo Ministro Rami Hamdallah e il Responsabile della Sicurezza Majid Faraj. Hamas, trovandosi con un pugno di mosche, è entrata in crisi.

Le condizioni interne sono peggiorate quando l’AP ha eseguito gli ordini vendicativi di Mahmoud Abbas, di tagliare i fondi per i salari e per l’elettricità. Allo stesso tempo, le azioni militari israeliane hanno diminuito ulteriormente gli strumenti a disposizione di Hamas. Gli scontri del 2014 avevano dimostrato che gli attacchi missilistici, quasi sempre sventati dall’Iron Dome e da altre misure preventive israeliane, davano un misero raccolto ad un pessimo prezzo. Di recente, i tunnel di Gaza sono diventati meno minacciosi grazie ai progressi tecnologici che permettono di rilevarne e distruggerne molti. Evidenti segnali nella regione hanno fatto capire sia ad Hamas che all’AP che i principali attori arabi sono sempre più concentrati su altre priorità: voci che giungono dall’Arabia Saudita e dall’Egitto dicono che bisognerebbe trovare un accordo nell’ambito delle proposte che dovrebbero giungere presto dagli Usa, e negoziare un possibile compromesso con Israele – accettando quelli che la parte palestinese chiama con rabbia i termini israeliani.

La tempistica delle proteste odierne al confine con Gaza è significativa. Le sei settimane cominciate con il Giorno della Terra, il 30 marzo, termineranno il 14 maggio, giorno in cui l’amministrazione Trump ha in programma di commemorare l’atto di riconoscimento del presidente Truman, che 70 anni fa scelse di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme. In questo modo Hamas (mascherandosi dietro un’iniziativa non governativa) ha l’opportunità di togliersi dall’imbarazzo adottando nuove tattiche: invocare la memoria del 1948 e contemporaneamente negare ad Abbas l’iniziativa per contrastare la scelta di Trump (o perlomeno fargli pagare un caro prezzo). Visto che le solite risposte di Hamas – terroristi suicidi, attacchi missilistici o con i tunnel – non hanno portato a nulla, l’insolita opzione di sfondare il confine utilizzando “ondate umane” pare essere attraente. Durante questo processo Hamas potrebbe ancora una volta accusare l’Idf di voler “massacrare” civili. Purtroppo, ma ciò non ci sorprende, i media occidentali e la sinistra sono ben disposte a rilanciare queste accuse; tra di loro ci sono molte persone di buona volontà ma malaccorte, che non si accorgono che il loro comportamento non fa altro che mettere a rischio altre vite, dato che premiare le tattiche di Hamas serve solo a perpetuarle.

L’Idf sapeva bene che questo sarebbe potuto accadere, ma data la posizione del confine, non c’era molta scelta. Non riuscire a prevenire uno sfondamento, sia ora che man mano che le provocazioni si intensificheranno nell’avvicinarsi del 14 maggio, avrebbe conseguenze catastrofiche. Gli israeliani non avevano di certo bisogno del mix di bandiere palestinesi e svastiche (che sono apparse durante le manifestazioni) per ricordarsi del passato. Di certo la necessità di ripristinare un deterrente deve essere sempre contrapposta ai costi in termini di legittimità morale israeliana, ma ciò non può accadere al prezzo di un kibbutz, dell’invasione al confine o della messa in discussione della sovranità israeliana.

Allo stesso tempo, l’avvicinarsi di un’altra scadenza verso la metà di maggio rende più acuta la necessità di deterrenza. Visto che probabilmente non si riuscirà a mettere una toppa sull’Accordo sul nucleare iraniano entro il 12 maggio, l’Amministrazione Trump sceglierà probabilmente di bocciarlo, innescando una crisi che l’Iran sceglierà sicuramente di aggravare. Utilizzando la Jihad Islamica palestinese, gli iraniani vorranno portare la situazione a Gaza sull’orlo dell’esplosione: un ulteriore motivo per l’Idf e per le autorità israeliane di dimostrare al più presto possibile che le provocazioni di Hamas non porteranno ai grandiosi risultati promessi – l’ingresso trionfante a Gerusalemme – ma al fallimento (per non parlare del degrado ecologico causato dal numero di pneumatici bruciati).

Certamente si possono disapprovare alcune scelte del governo israeliano. La settimana scorsa, il drammatico dietrofront del primo ministro sulle politiche verso i migranti africani ha scioccato e fatto infuriare molti israeliani. E neanche l’Idf è immune dalle critiche: ha già assegnato un ufficiale di alto rango per investigare quello che è accaduto al confine, per vedere se sono stati commessi degli errori, e se si sarebbero potute scegliere tattiche diverse. Ma in fin dei conti, la piena responsabilità per lo spargimento di sangue palestinese avvenuto dal 30 marzo è di chi sceglie di mandare masse di civili in un campo di battaglia, all’interno di un piano, descritto con franchezza, per la cancellazione di Israele.

(*) Eran Lerman è l’ex responsabile per la politica estera e gli affari internazionali al Consiglio Nazionale di Sicurezza dell’Ufficio del primo ministro israeliano. In precedenza è stato direttore dell’Ajc (American Jewish Committee) a Gerusalemme.


di Eran Lerman (*)