Rivedere l’Accordo nucleare con l’Iran

giovedì 12 ottobre 2017


Questa settimana il presidente Donald Trump terrà un discorso sull’Iran, e in particolare sul futuro dell’Accordo nucleare (Jcpoa). Sono anni che seguiamo la questione delle politiche verso l’Iran, e siamo in stretto contatto con un gran numero di persone che hanno ruoli attivi in questo processo, sia negli Stati Uniti che in altri Paesi. Sin dall’inizio, l’Ajc ha scelto un approccio deliberativo riguardo il Jcpoa, e continuerà a farlo in base alle parole del presidente riguardo la certificazione o meno dell’accordo, e il ruolo del Congresso nell’immediato futuro. A seguito dell’annuncio dell’accordo il 14 luglio 2015, abbiamo passato 23 giorni rileggendolo attentamente, e incontrandoci in forma privata con vari leader mondiali, tra cui l’allora Segretario di Stato, John Kerry. Alla fine ci siamo trovati contrari all’accordo, in quanto pensavamo che vi fossero delle mancanze sotto vari aspetti chiave, tra cui:

- Il cambiamento della strategia negoziale da “smantellare” (il programma nucleare) in cambio di “smantellare” (le sanzioni internazionali) a “rimandare” (il programma nucleare) in cambio di “smantellare” (le sanzioni);

- L’inserimento della clausola provvisoria che permette all’Iran di arrivare sull’orlo di diventare una nazione nucleare in futuro;

- La mancanza di risposte adeguate alla questione del programma missilistico iraniano;

- La mancata inclusione dei siti militari nella lista dei luoghi soggetti ad ispezione;

- L’assenza di riferimenti al ruolo dell’Iran nel sostegno al terrorismo e all’instabilità della regione.

Allo stesso tempo, abbiamo detto che saremmo stati ben felici di avere torto, ma che ci sarebbe voluto del tempo per raggiungere un verdetto. Inutile aggiungere che se il Jcpoa si fosse rivelato essere come lo descrivevano i suoi sostenitori in tutti i suoi aspetti – tra cui quello cruciale, cioè sbarrare per sempre la strada ad un Iran nucleare – allora avremmo subito ammesso che il nostro giudizio era errato.

Ma negli ultimi due anni, malgrado il fatto che, come abbiamo potuto ascoltare direttamente più di una volta, l’Amministrazione Obama fosse convinta che l’accordo avrebbe “moderato” il comportamento iraniano e rafforzato “l’ala moderata del regime”, la realtà ineluttabile è che, proprio come avevamo previsto, è accaduto l’esatto opposto. L’arroganza e la belligeranza di Teheran sono aumentate, così come è aumentata l’ostilità verso gli Stati Uniti e Israele.

L’Iran, in trincea con la Siria, ha collaborato attivamente con il presidente Bashar al-Assad nelle atrocità di massa che sono avvenute in quella terra martoriata dalla guerra. Ha costruito fabbriche di armamenti in Siria e inviato truppe nel Paese. È attivo in Iraq e nello Yemen, dove milizie iraniane combattono contro l’America e i suoi alleati. Tramite il gruppo terrorista di Hezbollah, è una presenza importante in Libano. Sostiene economicamente Hamas, un altro gruppo terroristico, il cui obiettivo dichiarato ripetutamente è l’eliminazione di Israele. Inoltre, l’Iran continua a testare ed a schierare nuovi, potenti armamenti. In altre parole, le ambizioni egemoniche dell’Iran si sono rafforzate materialmente, creando un nuovo equilibrio di poteri in Medio Oriente.

L’Iran continua a intrattenere rapporti con la Corea del Nord, e molti sostengono – come abbiamo potuto constatare durante vari incontri nelle capitali dell’Asia – che l’Iran e la Corea del Nord cooperino attivamente nelle ricerche nucleari e nello sviluppo di missili balistici.

Come se non bastasse, all’inizio del 2015 alcuni funzionari del governo Usa ci avevano detto che i beni non congelati dell’Iran sarebbero stati utilizzati in larga parte per le priorità domestiche, e non nel campo della difesa o per attività militari all’estero. Il ragionamento che ci fu fatto allora era che il governo iraniano avrebbe “comprato” il supporto della popolazione finanziando progetti per migliorare le infrastrutture carenti, dalle strade alle scuole, dai sistemi fognari agli ospedali, evitando in tal modo il ripetersi dei disordini del giugno 2009. Tutto questo non è avvenuto.

Ci è stato raccontato addirittura che il presidente iraniano Hassan Rouhani sarebbe potuto essere il nuovo Mikhail Gorbachev, che avrebbe instaurato una vera e propria rivoluzione nella politica e nel pensiero, come fece il leader sovietico tra il 1985 e il 1991. Neanche questo è avvenuto. Chiaramente, la questione iraniana va affrontata in qualche modo, e la cosa migliore sarebbe farlo assieme ai nostri partner della comunità internazionale. Rimane da vedere quale sarà la rotta tracciata dall’Amministrazione Trump nel prossimo, atteso discorso, e fino a che punto i nostri alleati europei saranno disposti a riaprire una questione che credevano chiusa nel 2015 (potenzialmente mettendo a rischio gli accordi commerciali con l’Iran che hanno coltivato in questi anni).

Ci sono almeno due ostacoli fondamentali: il primo è che la riapertura del Jcpoa è un tema che divide Washington per appartenenza di partito, con i repubblicani a favore e i democratici contrari alla questione. Sarà possibile trovare un accordo che possa sbloccare questa paralisi sin troppo familiare?

I democratici riusciranno a superare il desiderio di proteggere a tutti i costi quest’iniziativa, emblematica dell’era di Obama, e ammettere che l’accordo ha gravi difetti che non possono essere ignorati, se non a scapito della sicurezza di tutti?

I repubblicani saranno in grado di superare l’antipatia verso la presidenza Obama – e verso questo accordo in particolare – e capire che una mossa avventata potrebbe portare all’isolamento degli Stati Uniti invece dell’Iran, e mettere in dubbio la credibilità del Paese?

Il secondo ostacolo è che di questi tempi Trump non è visto in maniera particolarmente favorevole nelle capitali Europee, e non solo. Visto che così stanno i fatti, è possibile che qualunque nuova mossa di Washington potrebbe essere vista come nulla più di vaghe minacce o di politiche del rischio calcolato, senza un piano costruttivo e convincente alle spalle.

Le possibili opzioni per la questione iraniana sono spinose e molto complesse. La Storia ha dimostrato che non esiste una sola persona o un solo partito che possegga tutte le risposte. Solo la massima collaborazione a Washington e tra i nostri alleati potrebbe portare a risposte fattibili. Ma purtroppo, per il momento questo non sembra molto probabile.

(*) Ceo dell’American Jewish Committee


di David Harris (*)