Errori, orrori e speranze nella lotta al terrorismo

Ci sono errori e orrori nella guerra al terrorismo, ma anche qualche speranza.

L’errore (e orrore) che emerge in questi giorni è la mancata prevenzione dell’attentato del London Bridge. Perché uno degli autori della strage, Khuram Butt, era stato addirittura ripreso in una trasmissione di Channel 4 sugli estremisti islamici (“Gli jihadisti della porta accanto”). E un altro, il terzo di cui è stata rivelata l’identità ieri, Youssef Zaghba, abitava a Bologna dove era stato arrestato dalla nostra polizia nel 2016 mentre cercava di raggiungere l’Isis in Siria, via Turchia. Perché erano noti e a piede libero? È la domanda ricorrente, ormai, dopo tutti gli attentati. E se la stanno ponendo anche gli australiani, proprio in questi giorni, perché la notte del 5 giugno, a Melbourne, uno jihadista che ha giurato fedeltà all’Isis, Yacqub Khayre ha preso una donna in ostaggio e ha ferito altre tre persone prima di essere ucciso a sua volta dalla polizia. Anche lui era già stato arrestato nel 2009 e poi scagionato. Queste sono tante dimostrazioni di una sola regola: per combattere il terrorismo non sono efficaci gli strumenti della giustizia ordinaria. Se si cerca di arrestare gli jihadisti come fossero criminali comuni, si regala loro un vantaggio strategico. Non che sia stato trovato un metodo migliore, per altro. George W. Bush, con le prigioni segrete e Guantanamo (campo di detenzione extraterritoriale per terroristi solo presunti), aveva provato ad affrontare il terrorismo con metodi extra giudiziali. Obama ha proseguito sulla stessa linea con le eliminazioni mirate, con raid aerei contro cellule terroristiche all’estero, con i droni soprattutto. Ma non è possibile applicare gli stessi metodi anche in patria. E anche limitandoli ai teatri di guerra al terrorismo, lontani da sguardi indiscreti di stampa e attivisti, sono comunque metodi che hanno attirato contro gli Usa critiche da tutto il mondo.

La premier britannica Theresa May, dopo l’attentato sul London Bridge, annuncia un cambio radicale di strategia rispetto ai governi precedenti. Quattro le linee guida: lotta all’ideologia jihadista (ma anche Tony Blair ci aveva provato), maggiore controllo su Internet e in particolar modo sui social network (ma non è detto che sia possibile, almeno se non c’è un pieno accordo dei proprietari e degli amministratori), maggiori investimenti sull’intelligence interna, revisione dei termini di detenzione per reati, anche minori, legati al terrorismo. Funzionerà? Questi punti, oltre che porre seri problemi di libertà, specie di espressione quando si parla di limitare l’uso dei social, danno una sensazione di déjà vu. Un film già visto con Blair, con Brown, con Cameron. E l’esito è sempre lo stesso: i radicali islamici continuano a mettere le loro radici nell’enorme comunità musulmana britannica. In fatto di ideologia, un sondaggio del 2015 dimostrava che un terzo dei musulmani britannici comprendesse le ragioni della strage del Charlie Hebdo. Un sondaggio effettuato pochi mesi prima, invece, rilevava come i due terzi degli islamici in Inghilterra non fosse disposta a denunciare un foreign fighter. Tra parentesi: almeno uno degli attentatori del London Bridge era stato denunciato proprio da musulmani preoccupati per il suo estremismo. Ma l’intelligence non ha comunque funzionato.

Se in Europa, dunque, la situazione appare seria anche se non disperata, migliori notizie giungono dal Medio Oriente. Il blocco del Qatar sta infatti producendo i suoi primi effetti positivi. L’emirato ha dovuto espellere dal suo territorio alti esponenti del partito terrorista Hamas. La notizia, smentita ufficialmente dalla leadership di Gaza, è stata poi confermata da altre fonti palestinesi. Questi membri di Hamas sarebbero già fuori dal territorio del paese, distribuendosi in Libano, Malesia e Turchia. Fra gli espulsi ci sarebbero anche Musa Dodin (scarcerato da Israele nel 2011 in cambio della liberazione dell’ostaggio Gilad Shalit), e Saleh al-Arouri, ritenuto un capo di Hamas in Cisgiordania e uno degli organizzatori del sequestro e omicidio nel giugno 2014 dei tre adolescenti israeliani Gilad Shaar, Eyal Yifrach e Naftali Frenkel. Secondo Eli Avidar, ex emissario di Israele nel Qatar, Hamas a Gaza non sopravvivrebbe a lungo senza l’appoggio di Doha. È subito ottima anche la reazione di Israele: il ministro della Difesa Avigdor Liberman ha dichiarato ieri che il blocco del Qatar è un possibile punto di svolta. E’ il segno che i vicini arabi di Israele si sono resi conto che il vero pericolo è il terrorismo jihadista e non “l’entità sionista”.

Forse, dunque, si è trovata una buona strada per affrontare il terrorismo: mettere sotto pressione i regimi che lo sponsorizzano, da parte dei loro stessi vicini, arabi, musulmani e sunniti come loro. Ma forse è ancora troppo presto per essere così ottimisti, anche su questo fronte.

Aggiornato il 06 giugno 2017 alle ore 22:39