Donald Trump vuole rompere sul clima

Fonti interne alla Casa Bianca affermano che gli Usa potrebbero realmente ritirarsi dagli Accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico (Cop21). D’altra parte, già al G7 di Taormina, proprio su questo tema erano emerse tante differenze fra Donald Trump e la cancelliera Angela Merkel, in generale fra il presidente Usa e gli altri leader firmatari degli accordi. Qual è la posta in gioco?

Innanzitutto, il ritiro degli Usa rovinerebbe la festa di un accordo che vantava la celerità della ratifica. Ottenuta anche con alcune scorciatoie, non sempre oneste da un punto di vista democratico. Dopo la firma all’ultima conferenza sul clima di Parigi (Cop 21), per l'entrata in vigore dell'accordo, è stata richiesta la ratifica da parte di 55 paesi che rappresentavano almeno il 55 per cento delle emissioni del pianeta. La maggioranza qualificata è stata superata con la ratifica da parte del Parlamento Europeo e dei parlamenti di sette Stati membri dell’Ue: Austria, Francia, Germania, Malta, Portogallo, Slovacchia e Ungheria. Il loro peso è stato sufficiente per rendere operativo l’accordo. Con questo meccanismo si sono accelerati i tempi. Dopo appena undici mesi dalla conclusione della Cop 21, c’è già un accordo operativo. Per il protocollo di Kyoto (1997), il primo di questo genere, ci vollero ben 8 anni. Mentre erano 35 i paesi di Kyoto, ora sono 62 quelli di Parigi. India e Cina, le due più grandi potenze emergenti sono a bordo, mentre si erano opposte al protocollo di Kyoto. Per accelerare l’iter, l’accordo non è stato elevato al rango di trattato (legalmente vincolante), ma è un impegno scritto che ciascuna parte contraente prende volontariamente per ridurre le emissioni. Il 4 novembre 2016 è entrato in vigore.

Che cosa è richiesto dall’accordo? L’obiettivo, dal protocollo di Kyoto in poi, è quello di tagliare le emissioni di Co2 industriale, in modo da rallentare e fermare il processo di riscaldamento climatico globale. Questa strategia dà per scontati due presupposti: che il riscaldamento globale sia reale e prevedibile e che l’apporto umano sia fondamentale. Se gli scienziati sono d’accordo quasi all’unanimità sul riscaldamento globale in sé, è invece dubbio che la riduzione della Co2 prodotta dall’uomo possa realmente fermare il processo. Gli apporti della natura (attività solare, vulcanica, ecc…) potrebbero vanificare gli sforzi dell’uomo, come da tempo sostiene il professor Franco Battaglia: “Alla fine del 2100 potremmo aspettarci un contributo antropico alla temperatura della Terra di, forse, 0,2 gradi; contributo ben nascosto dalle molto più ampie variazioni naturali”.

A fronte di queste incertezze, i costi della lotta al cambiamento climatico sono, invece, certamente cari e salati: se preso sul serio e applicato alla lettera per raggiungere il suo obiettivo più ambizioso (mantenere la crescita della temperatura al si sotto dei 2 gradi centigradi), l’accordo di Parigi provocherebbe una deindustrializzazione quasi integrale del pianeta. Perché implicherebbe una riduzione di 6mila miliardi di tonnellate di Co2, più di 200 volte tanto quel che produce tutto il mondo. L’accordo si limita a proporre una riduzione di 56 miliardi di tonnellate di Co2, l’1 per cento di quanto sarebbe necessario per raggiungere l’obiettivo. Nonostante tutto, il costo sarà estremamente elevato. Nell’ipotesi che si continuino a usare combustibili fossili (come il petrolio), l’adattamento della produzione energetica ai nuovi standard costerebbe, a tutti gli Stati che hanno aderito, una cifra pari a 154mila miliardi di dollari nella migliore delle ipotesi, 570mila miliardi di dollari nella peggiore. Per rendere l’idea di che cifre stiamo parlando, il Pil italiano è pari a poco più di 2mila miliardi di dollari.

Queste cifre ci permettono di comprendere perché Trump abbia vinto le elezioni del 2016 anche promettendo l’uscita degli Usa dagli accordi di Parigi. Se la sua priorità è “America First”, anche per quanto riguarda la produzione energetica, la politica di lotta al cambiamento climatico è contraria al suo obiettivo, costerebbe troppo in termini di posti di lavoro. Una volta insediatosi a Washington, ha già ordinato il taglio del finanziamento ai programmi per la lotta al riscaldamento globale. I leader europei accuseranno certamente la Casa Bianca di irresponsabilità. Ma intanto l’unanimismo sul clima è stato spezzato. E non da uno staterello marginale, ma dalla prima potenza economica del mondo.

Aggiornato il 01 giugno 2017 alle ore 12:15