La guerra dell’islamismo e l’industria della bellezza

Verso la fine del 2016, molti erano col fiato sospeso dopo le epocali elezioni presidenziali in cui gli americani hanno dovuto scegliere tra un’opzione (la Clinton) a favore dello status quo e un’altra (Trump) considerata foriera di una risoluta vittoria contro l’Islam radicale. Per molti musulmani c’era una terza opzione. Indipendentemente dalle mutevoli sorti elettorali, l’obiettivo a lungo termine dei musulmani d’Occidente contrari ai valori occidentali non è stato sostanzialmente pregiudicato da un panorama politico alterato perché essi sono passati a una nuova arena: la cultura.

Nel 2016, il marchio elitario di moda Dolce & Gabbana ha lanciato una collezione chiamata “Abaya e Hijab”. Mesi dopo, la settimana della moda di New York – la New York Fashion Week – una mecca sartoriale, ha ospitato la prima passerella in cui i riflettori erano puntati su modelle che indossavano l’hijab.

L’influenza islamista sta ora utilizzando la cultura per consolidare i valori islamisti nei settori più ambiti e prestigiosi della società: la moda e la bellezza.

Melanie Elturk, CEO di Haute Hijab, uno dei principali marchi di hijab americani, ha apertamente condiviso la convinzione diffusa che “la moda è uno dei punti in cui possiamo iniziare quel cambiamento culturale nella società odierna per normalizzare l’hijab in America”.

Verso la fine dell’anno, CoverGirl, una popolare azienda di cosmetici dai prezzi accessibili, ha ingaggiato la bella blogger musulmana Nura Afia come nuova “ambasciatrice del suo brand“. La 23enne moglie e madre ha più di 200.000 follower su YouTube, grazie ai suoi tutorial sul trucco e su come indossare un hijab. Nura si è unita a celebrità come James Charles, il primo testimonial maschile dei prodotti di CoverGirl; Sofia Vergara star di Modern Family e la cantante pop Katy Perry, in una campagna pubblicitaria di cosmetici che è rivolta a consumatori che plaudono “l’uguaglianza” nella “diversità”.

Facendo posare un modello di make up, una donna in “hijab”, una star latina di serie tv e una cantante pop, CoverGirl intende lanciare un appello a un pubblico che apprezza la “diversità”, veicolando il messaggio che “l’uguaglianza” è interamente basata sull’apparenza piuttosto che sui valori o sul valore intrinseco. Anziché investigare nel mercato delle idee che esplora l’identità, la fede i valori americani, noi ora abbiamo campagna pubblicitarie che omogeneizzano idee contrastanti nell’imbuto del multiculturalismo. In questo caso, una nota cantante pop e una star televisiva sono usate come veicoli per lanciare il messaggio che indossare l’hijab è normale e forse anche desiderato e sognato.

L’industria cosmetica e della moda offrono in particolare un modello in cui il dibattito intellettuale culturale è messo da parte a favore dell’opinione. Questa opinione viene condivisa, confezionata e veicolata, come fosse un prodotto, verso una fascia della popolazione già ricettiva al messaggio lanciato. Con la nuova “ambasciatrice del brand” Nura Afia, il messaggio echeggia il mantra di irriducibili gruppi islamisti che, dopo le elezioni presidenziali, hanno perso gran parte del loro terreno politico. Il terreno perso è stato riguadagnato in nuovi ambiti attraverso personaggi come la Afia, che non hanno alcun legame con i partiti politici.

La bella blogger, come volto di una campagna pubblicitaria, riscuote un maggior gradimento rispetto a Nihad Awad del CAIR o alle difficoltà politiche dei Fratelli Musulmani. Il volto è cambiato, ma il messaggio no.

In una precedente intervista Refinery29 Nura Afia ha trasmesso questo messaggio: “L’Islam è davvero una bella religione. È pacifica e qualcun altro la travisa, anche in seno alla nostra stessa fede. Basta guardare i social media, [vedo che ] i musulmani colpiscono i musulmani, quindi se accade questo, non credo che i non musulmani si comportino diversamente. Immagino che dipenda da come sono fatti gli esseri umani, non ha nulla a che fare con la religione”.

Eppure, solo un mese prima in un post di Facebook, Nura aveva condiviso questo: “Se non avrete più la mia amicizia su Facebook è perché avete condiviso o pubblicato qualche diretta esclamazione ignorante, razzista o intollerante”.

Ecco i due volti del pensiero islamista. Da un lato, il volto amichevole preposto alle pubbliche relazioni sottolinea il mito della religione di pace; dall’altro lato, l’islamismo bandisce in privato le voci di dissenso, tacciandole di ignoranza, razzismo o intolleranza.

Intanto, CoverGirl e altri brand che difendono l’hijab come un nuovo standard di bellezza ignorano l’origine davvero sgradevole di questo indumento. Un gruppo ristretto di studiosi islamici ritiene che la pratica di indossare l’hijab serviva da comportamento discriminatorio per distinguere tra le donne musulmane “credenti” e “non credenti” (quelle non musulmane). La cultura islamica abbraccia la devozione religiosa coprendo il corpo delle donne musulmane, privando al contempo le donne non musulmane della loro dignità, considerandole beni e bottini di guerra da spartire e consumare – una pratica consentita dalla fede. L’origine della tradizione dell’hijab nell’Islam probabilmente è antecedente al Corano e risale alla prima società islamica. Il Corano, un libro che descrive dettagliatamente la vita civile e militare, non entra nei dettagli sul velo e non impone specificamente l’obbligo di coprire i capelli. Il versetto coranico (33:59) dice a proposito dell’hijab: “O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso”.

La pratica di coprire i capelli deriva da una società schiavista. Parlando della Sura 33:59-60, che raccomanda alle donne credenti di coprire il loro corpo, il professor Barlas si fa portavoce di un’opinione ampiamente condivisa dagli accademici: “Si tratta di versetti piuttosto semplici: se le donne musulmane indossassero un indumento esterno (jilbab), gli uomini non musulmani le riconoscerebbero come tali e non le molesterebbero. Nelle prime società schiaviste, come l’Arabia, ‘la legge del velo’ permetteva di distinguere le donne libere dalle schiave e quindi le donne che erano intoccabili da quelle che ‘erano preda’ (Lerner in Ahmed 1992:15). Era questa la società in cui prese forma la prima comunità musulmana e all’epoca sembrava essere sotto assedio”.

Secondo alcuni studiosi islamici, l’argomentazione del professor Barlas non è corroborata da elementi di prova sufficienti; altri studiosi, tra cui il professor Khaleel Mohammed, sostengono che la sua analisi è valida. Il punto principale è il seguente: la schiavitù all’epoca era una pratica diffusa. Prosperava culturalmente attraverso atti di demarcazione sociale e religiosa, come l’uso dell’hijab, che divenne per molti musulmani un simbolo della supremazia di classe, mentre le donne che non indossavano il velo erano, e continuano a essere, molestate e aggredite:[1] “eccetto che con le loro spose o con le schiave che possiedono – e in questo non sono biasimevoli...” (Surah 70, versetto 30, Al-Ma’aarej, Sahih International). L’Islam, a suo merito, ha introdotto molti incentivi per scostarsi da una società schiavista, rendendo semplice affrancarsi dalla schiavitù. Secondo gli Hadith (Sahih Bukhari, Volume 3, Libro 46, Numero 693), ad esempio, i musulmani sono ricompensati nell’aldilà per aver affrancato uno schiavo; liberare il corpo di uno schiavo è come liberare il proprio corpo dall’Inferno. Tuttavia, se l’Islam non ha introdotto la schiavitù e ha fatto in modo di accantonare la pratica, la fede non si è mai battuta per il diritto di tutte le persone di essere libere.

Questa omissione è in gran parte responsabile dell’attuale schiavitù in Mauritania, un paese molto gettonato dai musulmani devoti per studiare l’Islam in un ambiente che non subisce alcuna influenza occidentale. Questa inadempienza ha anche continuato a consentire gli stupri. Le violenze sessuali non vengono perpetrate solo durante le guerre dal Sudan alla Siria, sono commesse sulle donne e sulle bambine yazide ridotte apertamente in schiavitù dall’Isis, alle aste internazionali di schiave nei vicini paesi come l’Arabia Saudita, e in parte anche da vari migranti in Europa.

Pertanto, occorre fare un pazzesco sforzo di immaginazione quando brand come CoverGirl cercano consumatori che associno “uguaglianza” e “diversità”. Questo inoltre non rispecchia “l’Islam di pace” che molti musulmani cercano di enfatizzare.

Questi discorsi profondi sono inutili quando il mercato al quale si rivolge la Afia è in gran parte disinteressato alla storia, ai fatti o ad ogni altra prova che induca ad approfondimenti o riflessioni.

Per gli islamisti, Nura Afia e CoverGirl sono degli eccellenti emissari negli sforzi volti a normalizzare la rigidità nel sistema dell’Islam rendendolo “chic nel celebrare l’oppressione“. Contrariamente alle fantasie moderne dell’hijab “che abbatte le barriere”, storicamente questo indumento è stato utilizzato come barriera sociale.

Normalizzare l’hijab rafforza il messaggio che se una donna non si copre, non è rispettabile e quindi è inaccettabile. Questo è il ventre della cultura islamica: controlla i pensieri e i movimenti prima di tentare di indurre le altre donne alla sottomissione nell’illusione pungolata della “diversità” e “uguaglianza”.

(*) Gatestone Institute

Traduzione a cura di Angelita La Spada

Aggiornato il 24 maggio 2017 alle ore 13:02