Usa-Israele-Sunniti: il fragile asse contro l’Iran

Può apparire stonata, a molti, la scelta del paese per la prima visita di Stato di Donald Trump all’estero: l’Arabia Saudita. Ma come? – diranno i delusi – proprio lo Stato islamico per eccellenza, quello che esporta da decenni la variante più radicale dell’islamismo in tutto il mondo, deve essere il primo paese con cui dialoga il presidente eletto proprio per la sua durezza anti-islamista? La scelta è politicamente e moralmente discutibile. Gli Usa mantengono salda l’alleanza con l’Arabia Saudita dalla Seconda Guerra Mondiale e non l’hanno mai mollata, a dispetto di tutto: della tirannia assoluta che gli Al Saud impongono ai loro sudditi, del rifiuto saudita anche formale dei diritti umani e di tutti i valori di cui gli Usa si fanno promotori nel mondo. Non è stata scalfita nemmeno dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, organizzato da un saudita imparentato con il re e condotto materialmente da un commando costituito quasi interamente da sudditi del regno arabo. Trump non fa eccezione, non viola una regola seguita (per convenienza strategica ed economica) da tutti i suoi predecessori e “paga” il suo tributo ai sauditi. Accetta i loro onori e promette accordi per 380 miliardi di dollari, 110 in aiuti militari.

Per tutti coloro che si aspettavano una scelta diversa, è arrivato il contentino il giorno dopo, con la visita dello stesso Trump in Israele. In questo caso, la discontinuità con i predecessori, è arrivata sin dal primo momento: per la prima volta un presidente degli Stati Uniti si reca a Gerusalemme Est, cioè quella parte della Città Santa che per la diplomazia europea dovrebbe essere ceduta alla futura Palestina. E visita il Muro Occidentale, il cuore dell’ebraismo mondiale. Sempre a proposito di Israele, non deve neppure sfuggire un “dettaglio” che troppo dettaglio non è: sia in Arabia Saudita che in Israele, al seguito di Trump c’erano la figlia Ivanka e il marito Jared Kushner, entrambi ebrei osservanti. Normalmente, in Arabia Saudita, gli ebrei non possono neppure passare la dogana. Anche un turista che voglia andare in Israele, sa che poi non potrà entrare in Arabia Saudita, che tuttora non riconosce lo Stato ebraico. Nel caso dei familiari di Trump, al contrario, non si è letta neppure una riga di commento. E quindi, si tratta di puro opportunismo diplomatico, ipocrisia, schizofrenia culturale?

Non proprio. La strategia americana per il Medio Oriente era già abbastanza chiara ai tempi della seconda amministrazione Obama, è diventata più esplicita con il (meno diplomatico) successore. Si tratta di saldare nuovamente la storica alleanza fra Usa, Israele e monarchie arabe del Golfo. Unico comun denominatore di questa alleanza: l’inimicizia con l’Iran. Non a caso, se c’è un argomento che caratterizza i discorsi di Trump in Arabia Saudita e in Israele, questo è proprio la condanna netta della Repubblica Islamica, additata come nemico pubblico numero uno.

L’asse Usa-Israele-Sunniti non è una novità di quest’anno. E’ stata preparata nel corso degli anni, è nata quasi spontaneamente sul terreno, su una molteplicità di fronti. Gli Stati Uniti di Obama si sono ritrovati quasi per caso alleati del fronte sunnita (dunque anche saudita) allo scoppio della guerra civile siriana nel 2011. Gli Usa hanno premuto sin da subito per un allontanamento di Bashar al Assad, il dittatore sostenuto dagli iraniani. Nel 2011, per chi non ha la memoria cortissima, doveva essere l’anno dello sdoganamento definitivo di Assad e dell’Iran, secondo le previsioni della Casa Bianca. Le primavere arabe hanno mandato all’aria il programma e ribaltato le alleanze. Sul campo, gli Usa mettevano già a disposizione dei sunniti, nemici di Assad (e degli iraniani), la loro consulenza militare e, indirettamente, anche armi. Tre anni dopo, fallita la mediazione per una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia, anche nello Yemen scoppiava la guerra civile. Pure qui, si ripetevano gli stessi schieramenti della Siria: da una parte i sauditi, sostenuti dagli americani, dall’altra le potenti milizie Houthi, armate e sostenute dagli iraniani. L’Iraq è l’eccezione che (parzialmente) conferma la regola. Gli iraniani, su questo fronte, sono gli unici veri alleati del governo di Baghdad, riconosciuto anche dagli Usa. Visto che la maggioranza degli iracheni è sciita, gli Usa hanno tollerato una forte presenza iraniana nel paese per combattere contro il nemico peggiore nell’immediato: l’Isis. Anche per questo motivo, Obama è riuscito a tenere i piedi in due scarpe. Dividendo idealmente in due lo scacchiere mediorientale, ha sostenuto i sunniti a Ovest (Siria e Yemen) e gli sciiti iraniani a Est (Iraq), stando sempre, “democraticamente”, dalla parte delle maggioranze locali. Ma ora che l’Isis appare sconfitto anche a Mosul, la sua roccaforte principale nel paese, anche in Iraq le milizie sciite a guida iraniana tornano ad essere la principale forza di destabilizzazione. Ed è soprattutto questa la preoccupante situazione ereditata da Trump.

Infine, ma non da ultimo, c’è il problema numero uno, il Medio Oriente propriamente inteso. Grazie alla guerra civile siriana, Hezbollah si è rafforzato sul Golan, dove non era mai arrivato e ha consolidato il suo dominio nel Libano meridionale. Non solo: Hezbollah, che è una diretta emanazione del regime iraniano, ha imposto al Libano, nella sua interezza, il suo candidato presidente, il generale Aoun, cristiano e alleato con gli sciiti. Israele, che ricorda ancora come un trauma la guerra del 2006, teme di assistere alla calata di Hezbollah da Siria e Libano. Gerusalemme considera questa evenienza come il pericolo strategico numero uno, molto più dell’Isis e del terrorismo interno palestinese. Essere al fianco di Israele, dal punto di vista americano, vuol dire essenzialmente: aiutare Israele a far fronte all’Iran e ai suoi alleati locali.

Ecco dunque come, su vari fronti (Siria, Iraq, Yemen, Libano, Israele) si è formata sul campo, dal basso, la strana alleanza fra gli islamici più intransigenti fra tutti i sunniti, lo Stato ebraico e la nazione guida delle democrazie occidentali. Quanto è fragile un’alleanza simile? Può durare solo finché persiste il timore di un nemico comune. E se non salta prima su un altro “piccolo” problema: l’Iran è il partner mediorientale principale della Russia. Sarà difficile che Trump riesca a tenere assieme, a lungo, la sua amicizia con la Russia e la sua inimicizia con l’Iran. Prima o poi dovrà fare una scelta.

Aggiornato il 23 maggio 2017 alle ore 14:03