“Trumpetmania”

lunedì 22 maggio 2017


“Trumpetmania”? Altro (mio) ircocervo linguistico che sta per “trumpet” (tromba, in inglese) + “mania”, in cui il primo termine ha volutamente la radice “Trump”. La costruzione è una sintetica metafora in versione moderna di quella pessima abitudine di molti potenti di aprire un fuoco di sbarramento quotidiano nei confronti dell’opinione pubblica interna e mondiale, inondandola con una sventagliata di annunci compressi nei 140 caratteri di Twitter, ma non perciò meno destabilizzanti e sconvolgenti, specialmente se provengono dalla messaggeria dei capi di Stato e di Governo. Tra l’altro, l’abuso dell’effetto-annuncio clonato a centinaia di milioni di esemplari a costo zero e “senza” filtri, significa che, in caso di mancata realizzazione anche parziale delle eventuali promesse veicolate via social, le ricadute dell’insuccesso si amplificano enormemente e puntualmente sull’intera platea degli ascolti mondiali.

Mi sia concessa in merito una breve digressione. Personalità con rilevanti incarichi politici (come un premier, un presidente, ecc.) non dovrebbero poter comunicare pubblicamente come se fossero costantemente in campagna elettorale. Pertanto, una volta assunti i pieni poteri, direi che sia buona creanza supporre che i loro indirizzi privati sui social fossero riservati alla sola cerchia intima di amici e parenti stretti. Mentre, al contrario, dovrebbe essere reso obbligatorio a tutti i cittadini di accedere agli indirizzi ufficiali (tipo “@casabianca”; “@palazzochigi”, ecc.) per ricevere messaggi che riguardano aspetti di interesse nazionale. Torniamo ora a Trump, che sta per intraprendere il suo primo vero viaggio “spaziale” nella (per lui) marziana Europa. Che cosa, quindi, ci dobbiamo aspettare? “The Economist” del 19 maggio sostiene che sui dossier più delicati di politica estera si è eretto una sorta di “firewall” da parte dei più stretti collaboratori di Trump, tra i quali spiccano i generalissimi in pensione Jim Mattis (segretario alla Difesa) e McMaster, consigliere per la sicurezza. Completa la Triade Rex Tillerson, segretario di Stato, da cui dipende la Cia.

Questa terna, in altri termini (la cui esistenza ribadisce la mia convinzione di sempre che gli apparati sono la promessa di continuità di una Nazione democratica, e non i politici, sempre transeunti), è definita dal periodico londinese come “L’Asse degli Adulti”, la cui esistenza si giustifica con il fatto di dover garantire la continuità nella tradizione della politica estera statunitense, distanziandosi dalla retorica sempre un po’ azzardata e incautamente improvvisata della campagna trumpiana. E le correzioni di rotta sono ben visibili. Come la marcia indietro sulla Nato di Trump, che si è puntualmente rimangiato le sue dichiarazioni che la volevano “obsoleta”, solo per costringere gli alleati (di manica stretta, questo è vero) a sganciare dai loro bilanci nazionali un po’ più di risorse per metterle a disposizione della comune difesa atlantica. Facile a dirsi. Immaginate se l’Italia o la Francia dovessero davvero mettere mano al portafoglio, stanziando come richiesto qualche decina di miliardi di euro per le spese militari europee: un attimo dopo quella decisione avremmo Roma e Parigi in fiamme. Ma, forse, su questo i presidenti Usa non sono sufficientemente avvertiti.

Stessa drastica correzione di rotta (ricordate che cosa diceva Trump della Cina nella sua campagna elettorale?) sui rapporti tra Usa e Asia. Gli alleati dell’America nel Sud Est asiatico, infatti, hanno ricevuto rassicurazione che la politica americana nei loro confronti resta quella di sempre. Mentre, per la Cina, valgono come controesempio i colloqui avuti da Trump con il presidente cinese Xi Jinping nella residenza estiva di Mar-a-Lago, che hanno contribuito a disinnescare tra l’altro la mina nordcoreana. Uno degli effetti meno visibili della “Triade” è stato quello di rinviare a data da destinarsi i colloqui con la Russia sull’Ucraina, a seguito della decisione di procedere a un’inchiesta indipendente sulle supposte collusioni tra Putin e alcuni stretti collaboratori di Trump durante la campagna elettorale del 2016.

Per capire il clima che si respira nella cerchia a lui più vicina, vale la pena citare un passaggio eloquente dell’ultimo numero di “The Economist”: “Tuttavia, la riluttanza del Presidente o la sua incapacità a far tesoro anche di una sola pagina dei report di sintesi che gli vengono sottoposti, il tutto combinato con la sua impulsiva e narcisistica personalità, significa che nulla può essere dato per scontato. Consiglieri e funzionari di gabinetto e autorevoli parlamentari repubblicani disperano di fargli apprendere le benché minime regole del mestiere o di spingerlo ad abbandonare quegli atteggiamenti che mettono in continua fibrillazione e imbarazzo gli apparati, costretti a funamboliche smentite”.

Domanda: ma, almeno, il genero di Trump legge la stampa nazionale e internazionale?


di Maurizio Guaitoli