Ombre Usa, chi vuole detronizzare Trump?

Steve Bannon non sembra avere dubbi: negli Usa sarebbe in corso un tentativo di “golpe strisciante” per rovesciare il risultato elettorale e sfrattare Donald Trump dalla Casa Bianca, e dietro a tutto si profilerebbe la lunga ombra di Barack Obama. Il consigliere strategico di Trump – considerato dai grandi media statunitensi la vera eminenza grigia dietro al Presidente degli Stati Uniti – non è peraltro l’unico a lanciare tali accuse: numerosi analisti e opinionisti conservatori hanno infatti espresso recentemente sospetti simili, anche se in forma meno diretta o più velata.

In effetti, a Washington e dintorni si sta assistendo a qualcosa di assolutamente inusitato. Campagne di stampa di incredibile violenza che, sin dal giorno del risultato elettorale, montano manifestazioni “popolari” contro un Presidente eletto, piaccia o meno, secondo tutte le regole costituzionali; pubblicazione di “strane”, ancorché molto professionali, intercettazioni di intelligence che dimostrerebbero come molti uomini dello staff di Trump avessero avuto contatti, diretti o indiretti, con il Cremlino. E soprattutto stiamo vedendo un ex Presidente, Barack Obama, che invece di uscire di scena, secondo tradizione, dimostra un attivismo politico e un presenzialismo che a tutto fa pensare meno che a un dorato ritiro a vita privata. Obama che, peraltro, nei giorni immediatamente precedenti al trasloco dalla Casa Bianca, ha compiuto almeno due gesti che definire inusuali sarebbe pallido eufemismo. Ha deciso un inasprimento delle sanzioni contro Mosca senza consultare il suo successore designato, anzi in aperto contrasto con le nuove linee di politica estera da questo preannunciate. Un atto che altro scopo non poteva avere se non quello di gettare un bastone fra le ruote dell’Amministrazione entrante. E poi ha costituito una “Commissione indipendente” per indagare sulle relazioni, in campagna elettorale, fra gli uomini di Trump ed esponenti del governo russo: un palese tentativo di inficiare o per lo meno mettere in discussione il risultato delle urne. Nessun Presidente uscente, nella storia statunitense, ha mai abusato in tale modo delle sue, ormai residuali, prerogative.

Golpe strisciante o meno, tira comunque un vento strano dalle parti di Washington. Un vento sul quale, evidentemente, più di qualcuno sembra avere interesse a soffiare. Chiedersi “chi” appare, in verità, alquanto ozioso: la grande finanza speculativa, Soros in testa, e il potente sistema mediatico – in gran parte da questa dipendente e sicuramente legato all’establishment liberal – non hanno mai fatto mistero di considerare Trump come la peggiore delle iatture. Piuttosto la domanda che ci dovremmo porre è “perché?”, visto che, al di là di alcuni proclami alquanto eccentrici – in particolare in materia di immigrazione – “The Donald” non ha, sino ad ora, fatto nulla di così eclatante da sconvolgere l’America. Anzi, da che la sua presidenza ha avuto inizio, Wall Street sta conoscendo una “primavera” anticipata e rigogliosa, il sistema industriale appare in crescita, il quadro delle alleanze internazionali – dopo i primi faccia a faccia, come quelli con la britannica May e il giapponese Abe – sicuro e consolidato. Persino in materia di sanità pubblica Trump ha annunciato una riforma che, certo, eliminerà il contestato e controverso “Obamacare”, ma per sostituirlo con un nuovo sistema tale da garantire l’assistenza ai ceti più deboli. Insomma, una Presidenza che sembra destinata ad inserirsi, senza troppi traumi, nel solco di quella che è la tradizione delle amministrazioni repubblicane; e questo nonostante Trump sia, per estrazione e caratteristiche, una figura anomala, non legata all’establishment repubblicano e per molti versi con le stigmate del populismo. Che, tra l’altro, negli Usa è una tradizione politica con una sua specifica cultura e legittimità, come hanno dimostrato pensatori di livello internazionale come Christopher Lasch e Paul Piccone.

E allora perché tanto accanimento? Perché una campagna mediatica tale da rischiare di provocare una gravissima e insanabile frattura nel corpo civile degli States? L’impressione che abbiamo è che il vero problema non sia l’atteggiamento di Trump verso gli immigrati, o la questione della sanità pubblica, bensì – come stanno a dimostrare i fatti – quello verso la Russia. Il neo-Presidente infatti non ha mai fatto mistero del considerare come il peggiore errore del suo predecessore l’aver inasprito le relazioni con il Cremlino sino al punto di rievocare i fantasmi della Guerra fredda, e ha sempre pubblicamente dichiarato di voler rifondare su nuove basi i rapporti bilaterali con la Russia di Vladimir Putin. E questo nell’interesse di aziende e gruppi industriali statunitensi che con Mosca lavorano e hanno, negli anni, tessuto un complesso di partnership e relazioni commerciali con omologhe aziende russe.

Perché il mondo della Cold War, con due blocchi autosufficienti e totalmente estranei fra loro è ormai lontano, e la nostra realtà è, appunto, caratterizzata da un dinamismo economico e culturale che non permette più di innalzare “muri” o “cortine di ferro”. Tuttavia se l’economia produttiva americana – e per riflesso anche quella europea – avrebbe tutto da guadagnare in una risoluzione positiva delle recenti tensioni fra Cremlino e Casa Bianca, vi sono altri “interessi” che ne verrebbero sicuramente danneggiati. Interessi legati, appunto, a quella finanza puramente speculativa che non produce né lavoro, né merci, ma che alligna e prospera proprio nelle situazioni di tensione e conflitto. Un mondo oscuro, la cui ombra, negli anni di Obama, si è profilata dietro a varie “crisi”: da quella ucraina a quella libica, sino al disastro siriano.

(*) Senior fellow del think tank di studi geopolitici “Il Nodo di Gordio

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:05