Conferenza di Parigi,   motivi di un fallimento

Come abbiamo ripetuto più volte nel periodo che ha preceduto questo incontro, l’American Jewish Committee è da molto tempo impegnata nella ricerca di un accordo di pace duraturo basato su una soluzione a due Stati tra Israele e i palestinesi. Ed è proprio questo lo spirito che guida i nostri dubbi riguardo la Conferenza di Parigi, che rimane a nostro avviso irrilevante nel migliore dei casi, e dannoso nel peggiore, nell’ottica della ricerca di un accordo. Il nostro pensiero sulla conclusione della conferenza si può riassumere in cinque punti.

Primo - Come dovrebbe essere abbondantemente chiaro ormai, i palestinesi evitano di sedersi all’unico posto dove è possibile giungere ad un accordo, e cioè al tavolo delle trattative con Israele. Per cui, queste iniziative diplomatiche hanno solo l’effetto di far credere ai palestinesi - erroneamente - che riusciranno a raggiungere i loro scopi senza affrontare duri negoziati faccia a faccia con Israele.

Secondo - Israele è giustamente convinta che la conferenza sia stata convocata ignorando le loro legittime preoccupazioni; infatti il primo ministro israeliano l’ha definita “futile” e “truccata”. Inimicarsi e isolare sin dall’inizio una delle due parti principali del conflitto non è una buona strategia per raggiungere il successo.

Terzo - Alla prossima Amministrazione degli Usa non è sfuggito il fatto che questa conferenza abbia avuto luogo esattamente cinque giorni prima del loro insediamento a Washington. Il neo-presidente Donald Trump e la sua squadra non hanno nascosto le loro obiezioni all’incontro. È possibile che ci potrebbe essere qualche sorta di “ritorsione” dopo il 20 gennaio, quando la comunità internazionale dovrà affrontare il fatto che gli Usa svolgono un ruolo indispensabile nel processo di pace tra israeliani e palestinesi, e che ricorderanno a lungo quello che accadde il 15 gennaio.

Quarto - La Francia non ha dimostrato di essere un “mediatore onesto” nel conflitto, come ha amato definirsi. A proposito, una nazione - il Regno Unito - ha ampiamente dimostrato il perché. A suo credito, Londra ha deciso di adottare una politica di non intervento, come ha spiegato nel comunicato ufficiale: “Abbiamo particolari riserve su una conferenza internazionale il cui scopo è avvicinare alla pace due soggetti che non sono presenti - e addirittura contro la volontà di Israele - e che si svolge appena pochi giorni prima dell’insediamento di un nuovo presidente degli Usa, Paese che sarà il garante ultimo di qualunque accordo. C’è dunque il rischio che questa conferenza possa irrigidire le posizioni proprio nel momento in cui c’è più bisogno di favorire le condizioni per la pace. Per questo motivo partecipiamo come osservatori e non abbiamo sottoscritto il comunicato ufficiale”.

Quinto - La conferenza ha tentato di mobilitare il pianeta, non per la prima volta, su questa questione, e solo pochi giorni dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva appena fatto altrettanto. Nel frattempo, altre questioni urgenti chiedono a gran voce di ricevere attenzione e ottenere soluzione, ma inutilmente. Sopra tutte, la situazione in Siria, che rappresenta di gran lunga la principale tragedia umana del ventunesimo secolo. Un Paese lacerato, un conflitto con centinaia di migliaia di vittime, con milioni di esiliati, con profonde ramificazioni sia per i Paesi confinanti che per l’Europa. Eppure tutti gli sforzi della Conferenza di Parigi sono dedicati alla questione israelo-palestinese e non a quella siriana (tra l’altro, la Francia dichiara di avere una speciale comprensione storica ed un savoir-faire politico proprio sulla Siria), e non agli Stati falliti e in via di disintegrazione in Nord Africa ed in Medio Oriente, e non agli sfacciati tentativi russi di dividere l’Europa mentre persiste l’occupazione della Crimea e dell’Ucraina orientale, e neppure alle profonde minacce all’Europa presentate dal terrorismo, da modelli di integrazione falliti, dalla crescita dei partiti populisti e xenofobi.

Questa conferenza è alle nostre spalle e, grazie al cielo, il Segretario di Stato John Kerry ha assicurato che non seguiranno ulteriori azioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nei giorni a venire. Ma quel che rimane sotto ai nostri occhi è sempre la sedia vuota dal lato palestinese del tavolo delle trattative. Quando quel posto sarà riempito, allora forse avremo una situazione che possa condurre allo scopo finale: due Stati, per due popoli che possano vivere in pace, fianco a fianco.

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee (Ajc)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:00