Aleppo ed il destino della Siria di Assad

Bashar al-Assad ha vinto la battaglia di Aleppo. Dunque, hanno vinto iraniani e russi che appoggiano, senza tanti infingimenti, le truppe lealiste. Un successo fondamentale nel cancrenoso conflitto siriano, visto che sin dal suo inizio, nel luglio del 2012, quella per il controllo della più popolosa città della Siria si è rivelata una delle battaglie chiave. Soprattutto per la sua posizione strategica, in una fertile piana a metà strada fra il mare e l’Eufrate. Controllare Aleppo, dunque, significa controllare gli accessi ai grandi porti siriani sul Mediterraneo, il che spiega lo strenuo impegno dei russi, che in questi porti, in particolare a Tartus e Latakia, hanno le loro basi navali. E significa anche il controllo delle vie che conducono verso la Turchia e verso l’Iraq; la ragione dell’impegno, sul fronte opposto, di Ankara, che ha con decisione sostenuto i ribelli dell’Esercito Siriano Libero. Aleppo, inoltre, è la città più complessa e, se vogliamo, multietnica della Siria: una popolazione mista di arabi, circassi, armeni, turcomanni, curdi, turchi... e tutte le declinazioni del mosaico religioso siriano: cristiani, di varie confessioni, e musulmani sunniti, sciiti e alawiti. Una polveriera naturale che, non a caso, ha rappresentato uno dei detonatori della guerra civile. Domarne definitivamente la rivolta rappresenta, per Assad, dare alla Siria e al mondo il chiaro segnale che la “Primavera Siriana” è finita e che, dopo quattro anni, oltre trecentomila morti e più di quattro milioni di profughi – prevalentemente rifugiati in Turchia, Giordania e Libano – ha fallito in tutti i suoi obiettivi.

Anzi, l’illusione di un “Regime Change” che potesse aprire la strada ad un sistema più “democratico” – illusione nutrita e fomentata dai media occidentali e dai finanziamenti statunitensi, francesi e britannici – si è ormai da tempo trasformata in un incubo. L’incubo di una guerra di tutti contro tutti, una guerra asimmetrica, dove i giochi delle alleanze si sono ben presto rivelati vorticose geometrie variabili, con il fronte dei ribelli frammentato fra l’Esl filo-occidentale – progressivamente sempre meno influente nonostante l’appoggio di Washington – le milizie curde – a loro volta divise in diverse frazioni e in conflitto intestino – i gruppi fondamentalisti – in particolare al-Nusra, costola locale di Al Qaeda – appoggiati dai sauditi e dal Qatar, i turcomanni sostenuti da Ankara e, incubo finale, le milizie nere del Califfato, l’Is. Tutti contro Assad, certo, ma anche tutti in conflitto aperto fra loro. E proprio questo ha, infine, fatto il gioco del dittatore siriano, il cui schieramento, ancorché minoritario, aveva e ha il vantaggio della compattezza, dovuta in particolare alla componente alawita – la setta di derivazione sciita cui appartengono lo stesso Assad e con lui i vertici politico-militari del regime – ben cosciente di stare combattendo la battaglia per la propria sopravvivenza. Certo, dalla parte del rais di Damasco ci sono l’aviazione di Mosca, le milizie libanesi di Hezbollah, il Partito di Dio sciita, e i reparti speciali delle forze Quds, comandate dal generale Qassem Soleimani, l’uomo forte dietro al potere ufficiale di Teheran... ma contro Assad vi sono americani, turchi, francesi, britannici, sauditi, Qatar... uno schieramento imponente, ma, come dicevamo, diviso nei fini e negli obiettivi. Il che dovrebbe indurre ad una seria riflessione le Cancellerie occidentali, e soprattutto Washington, che la “Primavera Siriana” hanno favorito e fomentato, con Barack Obama che si è fatto trascinare in un’avventura senza senso da alleati interessati – francesi soprattutto – ed infidi, come sauditi e qatarini. Nonché, come lui stesso ha ammesso, dalla strategia improvvidamente interventista dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton. Una riflessione che, per inciso, il nuovo inquilino dello Studio Ovale, Donald Trump, sicuramente sta già facendo.

Nel calcolo di chi vince e chi perde, è dunque indubbio che la vittoria di Assad ad Aleppo rappresenti uno schiaffo per Washington, o meglio per l’ormai crepuscolare Amministrazione di Obama, che chiude la sua parabola con l’ennesimo, e forse più grave fallimento. E perdono, naturalmente, tutti quelli che sui ribelli avevano scommesso: britannici, francesi, sauditi soprattutto, il cui sogno di una sorta di protettorato sulla Siria è ormai svanito. Più tranquilla la Turchia, che sembra aver trovato, dopo le tensioni dei mesi scorsi, un nuovo accordo con Mosca sul futuro della Siria ed aver ottenuto garanzie per le minoranze turcomanne e sulle regioni a maggioranza curda. A vincere gli iraniani, che hanno salvato Assad ed impedito l’espansione dei rivali sauditi nella regione. E soprattutto Vladimir Putin, che ha conseguito in pieno il suo obiettivo: garantire alla Russia porti sicuri sulla costa siriana ed una base operativa nel cuore del Medio Oriente. Obiettivo che, certo, Mosca ha dovuto e dovrà ancora pagare a caro prezzo. L’assassinio dell’Ambasciatore russo ad Ankara ad opera di un estremista islamico – probabilmente legato alla rete di Al Qaeda – è un chiaro segnale della minaccia di una recrudescenza del terrorismo diretto contro la Russia e i suoi rappresentanti nel mondo.

La caduta di Aleppo, tuttavia, non segnerà la fine del conflitto siriano. Piuttosto è prevedibile una crescente “somalizzazione” di intere aree del Paese, divise sempre più tra gruppi e signori della guerra locali, mentre Assad si assesterà nelle principali città e sulla costa mediterranea. Inoltre vi sono i segnali di una ripresa dell’offensiva degli jihadisti dello Stato Islamico. Solo apparentemente debellate nei mesi scorsi, le milizie di al-Baghdadi hanno infatti approfittato dell’acuirsi della battaglia di Aleppo per tornare all’attacco in forze, riconquistando l’oasi di Palmira. Un obiettivo strategico e ancor di più simbolico. Il Califfo non è morto e sta tornando ad inquietare il sonno dell’Occidente.

(*) Think Tank di studi geopolitici “Il Nodo di Gordio

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:12