Democrazie attaccate  e tirannie perdonate

Secondo Amnesty International, gli “hotspot”, i centri che ospitano i migranti che arrivano in Italia, sono come i campi di concentramento. Questo è ciò che si apprende dal nuovo rapporto di Amnesty International, che accusa l’Italia niente meno che di “tortura” dei migranti. Nel report compare una sequenza di testimonianze, mai comprovate, che descrivono metodi degni di una giunta militare del Sud America. Il documento conferma l’accusa lanciata da Salman Rushdie contro Amnesty International parlando di “bancarotta morale”. Il Wall Street Journal ha aggiunto altre due accuse contro la famosa Organizzazione non governativa (Ong) occidentale: “Fervore antiamericano e confusione intellettuale”.

Nel nuovo rapporto di Amnesty International, un “testimone”, che si qualifica con il nome di “Adam”, parla di “una specie di pinza con tre estremità” con cui i poliziotti italiani gli hanno afferrato i testicoli. Prove? Referti medici che attestano le violenze? La versione dei poliziotti italiani? Sembra che non servano nel magnifico mondo di Amnesty International, dove una democrazia occidentale può essere tranquillamente accusata di “tortura” con “prove” deboli, inadeguate e non verificabili – uguali a molte accuse gravi mosse da Amnesty contro Israele. La polizia italiana e il ministero dell’Interno hanno negato tutte le accuse, definendole ridicole.

Già nel febbraio di quest’anno, Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty, aveva detto: “Chi, trovandosi in questo momento in Italia, abbia commesso atti di tortura può, nella grande maggioranza dei casi, dormire sonni tranquilli”. Un mese fa, Amnesty aveva diffuso un rapporto simile sui centri per migranti in Australia, un’altra democrazia tacciata di “tortura” da questa Ong ormai molto degradata, che nel 1977 vinse l’oramai altamente degradato premio Nobel per la Pace. Il mondo ha un debito di riconoscenza verso Amnesty, che ha combattuto duramente per liberare i prigionieri politici detenuti dai regimi comunisti durante la Guerra fredda e quelli detenuti dal regime di apartheid in Sud Africa. Ma quei giorni sono finiti. Ora Amnesty continua a tradire il suo simbolo: la luce della sua piccola candela accesa, prigioniera tra le spire di un filo spinato.

Nel 2005, Irene Khan, l’allora segretario generale di Amnesty, ebbe a definire il carcere americano di Guantanamo “il Gulag del nostro tempo”. Ella paragonò i campi di lavoro forzato sovietici, dove in milioni morirono di fame, freddo e furono giustiziati, a una base militare americana in cui non è morto nessun prigioniero e che forse ha evitato che centinaia di civili innocenti saltassero per aria. Sembra che Amnesty abbia voltato le spalle alla battaglia dei diritti umani in favore di un assurdo pregiudizio antioccidentale. Per questo il settimanale britannico “The Economist” ha accusato Amnesty di “riservare più pagine agli abusi dei diritti umani in Gran Bretagna e Stati Uniti di quanti non ne dedichi a Bielorussia e Arabia Saudita”. Questa è la stessa confusa equivalenza morale che probabilmente ha portato Amnesty ad impiegare per gli “hotspot” italiani lo stesso linguaggio che usa per descrivere il carcere siriano di Saydnaya, gestito dal regime di Bashar al-Assad.

Se Guantanamo è il nuovo Gulag, perché non chiedere l’arresto del suo comandante in capo? È esattamente quello che Amnesty ha fatto due anni fa, rivolgendo al Canada la richiesta di arrestare George W. Bush. “Il Canada è obbligato ad arrestare e perseguire Bush per la sua responsabilità in crimini di diritto internazionale tra cui la tortura”, ha detto Susan Lee, direttore di Amnesty International America. Amnesty ha inoltre accusato Barack Obama di “crimini di guerra”. E la “guerra al terrore” intrapresa dall’Occidente? Secondo Amnesty, “semina paura”. Gli attacchi condotti dai droni americani? Sono “crimini di guerra”. La Ong ha inoltre accusato Israele di “crimini di guerra”.

Alan Dershowitz riassume la definizione data da Amnesty dei “crimini di guerra” di Israele dicendo: “Qualsiasi cosa faccia Israele per difendere i propri cittadini”. Un report di Ngo Monitor ha circostanziato “ripetuti esempi di ‘guerra giuridica’ da parte di Amnesty: le lacune sistematiche nel segnalare gli abusi dei diritti umani; la comprensione limitata di un conflitto armato che spinge ad affermazioni erronee e analisi errate; e la violazione dell’universalità dei diritti umani, nonché un costante pregiudizio istituzionalizzato contro Israele applicando due pesi e due misure”. Ci sono anche dirigenti di Amnesty che hanno definito lo Stato ebraico “uno Stato feccia”.

In nome della “tutela dei diritti umani”, Amnesty International ha inoltre giustificato l’estremismo islamico. Il segretario generale di Amnesty, Claudio Cordone, ha detto che il “jihad difensivo” non è “antitetico” alla battaglia per i diritti umani. Lo disse in risposta a una petizione sul rapporto di Amnesty con Cage (ex Cageprisoners), la Ong fondata dal fondamentalista islamico Moazzam Begg e che si batte per il rilascio di conclamati jihadisti. Una dirigente di spicco di Amnesty, Karima Bennoune, autrice di un libro dal titolo “Your fatwa does not apply here”, ha scritto: “Durante i miei anni ad Amnesty International condivisi le sue preoccupazioni sulla tortura in Algeria, ma non potevo comprendere la risposta dell’organizzazione alla violenza dei gruppi fondamentalisti”.

E la Bennoune non è la prima dirigente della Ong che ha criticato la sua stessa organizzazione. Amnesty sospese anche Gita Sahgal per aver espresso alcune preoccupazioni. “Apparire assieme al più famoso sostenitore britannico dei talebani, trattandolo come un difensore dei diritti umani, è un grosso errore”, ella scrisse.

C’è stato un tempo in cui Amnesty International difendeva le vittime della repressione ideologica, come la moglie dello scrittore sovietico Boris Pasternak, Olga Ivinskaya, che passò anni agli arresti e fu perseguitata per il rifiuto del marito di inchinarsi al Cremlino. Ora, il “Times of London” ha documentato i legami esistenti tra i dirigenti di Amnesty e gli islamisti.

Oggi, a quanto pare Amnesty considera la libertà di espressione qualcosa da usare con “responsabilità”, come affermò l’organizzazione durante la crisi scatenata dalle vignette su Maometto. La libertà di parola è il diritto di dire quello che si vuole, su qualsiasi argomento e ogni volta che si vuole? No, secondo Amnesty International, un gruppo di vigilanza che oggi ammonisce i grandi dissidenti sovietici di scrivere con “responsabilità”. Amnesty ha patrocinato una manifestazione a Bruxelles, dove gli oratori islamisti hanno celebrato gli attacchi dell’11 settembre, negato l’Olocausto e demonizzato i gay e gli ebrei. Prima ancora, Amnesty si era rifiutata di punire Kristyan Benedict, responsabile britannico del gruppo, che aveva twittato: “La risposta del regime israeliano al nostro rapporto su Gaza: Amnesty è ‘uno strumento di propaganda al servizio di Hamas e altri gruppi terroristici’(#JSIL?)”. L’hashtag “#JSIL” è usato su Twitter per paragonare Israele all’organizzazione terroristica dello Stato islamico, rimpiazzando “islamico” con “ebraico” nell’acronimo comune del gruppo, Isil. Amnesty ha inoltre patrocinato un giro di conferenze di Bassem al-Tamimi, un attivista palestinese che promuove le teorie del complotto antisemite.

Visti i precedenti, è quanto meno lecito dubitare che la polizia e le autorità italiane siano in combutta per “torturare” i migranti che hanno così generosamente salvato in mare da oltre due anni. Qualcuno negli “establishment dei diritti umani” occidentali ha oltrepassato la linea rossa che separa la difesa dei diritti umani, anche per i terroristi, dalla complicità e dalla collusione con le idee totalitarie repressive.

(*) Gatestone Institute

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:07