Europa: sotto processo i critici dell’Islam

giovedì 15 dicembre 2016


Dopo la Seconda guerra mondiale e gli orrori del nazismo e dello stalinismo, un principio fondamentale delle democrazie occidentali era quello secondo il quale si potevano mettere sotto processo le persone, ma non le idee e le opinioni. L’Europa oggi sta permettendo a pericolosi gruppi islamisti e per i “diritti umani” di restringere i confini della nostra libertà di espressione, esattamente come nei processi farsa sovietici. “L’antirazzismo militante sarà per il XXI secolo ciò che il comunismo è stato per il XX secolo”, ha predetto l’eminente filosofo francese Alain Finkielkraut.

Un anno fa, Christoph Biró, un rispettato editorialista e redattore capo del più venduto quotidiano austriaco, il “Kronen Zeitung”, ha scritto un articolo che accusava “i giovani uomini siriani con un alto tasso di testosterone, che hanno compiuto assalti sessuali molto aggressivi” (ancora prima delle aggressioni sessuali della notte di Capodanno a Colonia, Amburgo e in altre città). L’articolo scatenò molte polemiche e incassò un gran numero di reclami e proteste. Così Biró fu costretto a prendersi quattro settimane di ferie per poi ammettere (sotto pressione) di aver “perso il senso della misura”. La procura di Graz ha accusato Biró di “istigazione all’odio” dopo una denuncia da parte di “Sos Mitmensch”, un sedicente gruppo dei diritti umani. Sarà il tribunale a decidere.

A giornalisti, scrittori e intellettuali di tutta Europa oggi viene detto di alzare la mano destra davanti a un giudice e giurare di dire la verità, nient’altro che la verità – come se questo non sia ciò che stanno facendo tutti insieme ed a causa del quale ora sono alla sbarra. Si tratta di uno spettacolo inquietante, ma molto comune, in cui “l’incitamento all’odio” è diventato un’arma politica da rivolgere contro chi non è d’accordo con voi.

Il diritto di cavillare sui contenuti degli articoli o sulle vignette non spetta a una democrazia. In Occidente, abbiamo pagato a caro prezzo la libertà di scriverli o di leggerli. Non è compito di chi governa concedere il diritto di pensiero e di parola, che appartiene alla libera iniziativa nelle democrazie. Il diritto di esprimere la nostra opinione è stato pagato caro, ma se non viene esercitato può svanire rapidamente.

Un nuovo fronte legale grottesco si è appena aperto a Parigi. È iniziato il processo al filosofo francese Pascal Bruckner, che ha citato nella sua deposizione in aula la frase di Jean-Paul Sartre: “Pistole caricate a parole”. Bruckner, uno dei più famosi saggisti francesi, è sotto processo per essersi espresso contro “i collaboratori degli assassini di Charlie Hebdo”.

“Dirò i nomi: le associazioni Les Indivisibles di Rokhaya Diallo e Les Indigènes de la République di Houria Bouteldja, il rapper Nekfeu che voleva fare ‘un autodafé per quei cani’ (di Charlie Hebdo, ndr), tutti quelli che hanno giustificato ideologicamente la morte dei dodici giornalisti”.

Innumerevoli testimoni hanno deposto a favore di Bruckner: il direttore di Charlie Hebdo, “Riss”; il politologo Laurent Bouvet; l’ex presidente dell’associazione “Né puttane né sottomesse”, Sihem Habchi e il filosofo Luc Ferry. Bruckner ha usato il termine “collabò” per “quei giornali che hanno giustificato la liquidazione dei combattenti della Résistance e degli ebrei” durante la Seconda guerra mondiale. Sihem Habchi ha parlato del pericolo di un “fascismo verde”, l’islamismo. La sentenza sarà pronunciata il 17 gennaio. “Bruckner ha portato la sua voce davanti alla 17ma camera (del palazzo di giustizia, ndr), affossando troppo spesso la libertà di espressione”, ha commentato l’autorevole e coraggioso “Riposte Laïque”.

Questi processi politici sull’Islam sono iniziati nel 2002, quando un tribunale di Parigi prese in esame una denuncia contro Michel Houellebecq, che nel romanzo “Piattaforma” ha definito l’Islam “la religione più stupida”. Lo scrittore Fernando Arrabal, arrestato per blasfemia nel 1967 nella Spagna franchista, fu chiamato da Houellebecq a testimoniare in tribunale. “Che gioia essere testimone in un processo per reati di opinione - disse Arrabal in aula a Parigi - Saragozza, Valladolid, Santander (il drammaturgo elenca una serie di città spagnole, ndr) - Questa è la lista delle carceri in cui sono stato per aver fatto la stessa cosa di Houellebecq”.

Anche la compianta scrittrice italiana Oriana Fallaci finì alla sbarra per il suo libro “La rabbia e l’orgoglio”. Il quotidiano francese “Libération” la definì “la donna che diffama l’Islam”. E lo stesso dicasi per Charlie Hebdo e il suo direttore Philippe Val, presi di mira da organizzazioni islamiste. La condanna a morte contro Salman Rushdie emessa nel 1989 da parte del leader supremo iraniano sembrava irreale. L’Occidente non la prese sul serio. Da allora, tuttavia, questa fatwa è stata assimilata a tal punto che le minacce odierne alla libertà di espressione provengono da noi stessi. Ora è l’Occidente che mette alla sbarra scrittori e giornalisti. È diventato quasi impossibile elencare tutti i giornalisti e scrittori che hanno dovuto difendersi in tribunale a causa delle loro idee sull’Islam. Per citare lo scrittore franco-algerino Boualem Sansal, autore del romanzo “2084”, in un’intervista a Libération: “Ci rendiamo conto del pericolo, ma non sappiamo come agire per paura di essere accusati di essere anti-migranti, anti-islam, anti-Africa... In realtà, la democrazia, come il topo, sarà inghiottita dal serpente”. E sarà trasformata in “una società che sussurra”.

I giornalisti sono ora perseguiti penalmente anche se mettono in discussione l’Islam durante un dibattito radiofonico. Ecco perché oggi la maggior parte degli scrittori e giornalisti si limita a parlare sottovoce delle conseguenze della migrazione di massa in Europa, del ruolo dell’Islam nella guerra mossa dai terroristi alle democrazie e degli attacchi dei sultani alla libertà di espressione. Le Brigate Rosse, il gruppo terroristico comunista che devastò l’Italia negli anni Settanta, hanno coniato lo slogan: “Colpirne uno per educarne cento”. Colpendone uno, si genera un’intimidazione collettiva. È esattamente questo l’effetto di tali processi politici sull’Islam. Il dibattito si sta rapidamente chiudendo. L’altro giorno, in Olanda, si è concluso il processo a Geert Wilders per i reati di “incitamento alla discriminazione e insulti contro una minoranza”. Il coraggioso politico olandese aveva chiesto ai suoi sostenitori se volessero “un minor numero di marocchini” nel Paese. Condannando Wilders, per la prima volta nella storia olandese, un tribunale ha criminalizzato la libertà di espressione (cinque anni fa Wilders era stato assolto in un processo simile.)

In Francia, Ivan Rioufol, uno dei più rispettabili editorialisti del quotidiano “Le Figaro”, ha dovuto difendersi dall’accusa rivoltagli dal “Collettivo contro l’islamofobia”. Lo scrittore Renaud Camus, che aveva esposto la teoria della “Grande Sostituzione”, che sostiene che la Francia è stata colonizzata dagli immigrati musulmani con l’aiuto dei politici mainstream, è stato accusato di “incitamento all’odio”. Anche Marine Le Pen è stata trascinata in aula. In Germania, c’è stato il caso di Jan Böhmermann, un comico che ha deriso il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan in televisione. I giudici tedeschi hanno poi messo sotto processo Lutz Bachmann, il fondatore di “Pegida”, il movimento anti-islamizzazione. In Canada, il saggista e giornalista Mark Steyn è stato accusato di “islamofobia palese” da un “tribunale per i diritti umani” (e poi assolto). Anche Lars Hedegaard, il direttore della “Free Press Society” danese è stato accusato di “incitamento all’odio” (e in seguito assolto) per le critiche mosse all’Islam.

È fondamentale che questi scrittori e giornalisti siano assolti. Ma l’obiettivo di questi processi non è quello di scoprire la verità, ma intimidire l’opinione pubblica e limitare la libertà di espressione sull’Islam. Si tratta di purghe per “rieducarli”. E purtroppo, come dimostra il processo di Wilders, spesso ci sono riusciti. Dopo l’invasione russa della Cecoslovacchia del 1968, i romanzi di Milan Kundera sparirono dalle librerie e dalle biblioteche. L’intellighenzia giaceva nella sterilità e nell’isolamento. I cinematografi e i teatri davano spettacoli solo sovietici. Alla radio, sui giornali, alla televisione si sentiva, leggeva e vedeva solo propaganda. I russi ricompensavano i burocrati che facevano pressioni su scrittori e giornalisti, e punivano i ribelli. Quelli che parlavano apertamente spesso erano obbligati a lavorare come operai non qualificati. Praga, inquietante e affascinante, divenne silenziosa e sussurrante. Oggi la stessa cortina di ferro sta calando sull’Europa.

(*) Gatestone Institute


di Giulio Meotti (*)