La lettera di   un ebreo dimenticato

Sono un ebreo dimenticato. Le mie radici risalgono a quasi 2600 anni fa. I miei antenati hanno dato il loro fondamentale contributo alla civiltà mondiale, ed ero presente ovunque, dal Nord Africa alla Mesopotamia. Ma oggi, io praticamente non esisto più.

Vedi, io sono un ebreo del mondo arabo. No, forse non è proprio quella la definizione giusta. Io ero già là, prima delle conquiste arabe, in ognuna di quelle terre. Per esempio, quando i conquistatori arabi invasero il nord Africa, io ero già lì da più di sei secoli. Oggi, in tutta quella grande regione, non c’è più traccia di me. Prova a cercarmi in Iraq. Ricordi l’esodo babilonese dall’antica terra di Giudea, che fece seguito alla distruzione del Primo Tempio, nel 586 a.C.? Ricordi la vivace comunità ebraica che viveva lì e produsse il primo Talmud babilonese? Sapevi che nel nono secolo, durante il dominio musulmano, noi ebrei in Iraq eravamo costretti a portare una pezza gialla sui vestiti per distinguerci – come sarebbe poi successo con l’infamante stella gialla che ci cucirono addosso i nazisti – ed eravamo sottoposti a misure discriminatorie? Sapevi che nell’undicesimo e nel quattordicesimo secolo eravamo soggetti a severe oppressioni e pagavamo tasse ingiuste mentre le nostre sinagoghe venivano distrutte? E mi domando, hai mai sentito parlare del Farhud, il collasso dell’ordine pubblico che accadde a Baghdad nel giugno del 1941? George Gruen, specialista dell’Ajc, scriveva così: “In un’esplosione di violenza impazzita, sono stati uccisi tra i 170 e i 180 ebrei, ne sono stati feriti 900, e 14.500 di loro hanno perso tutti loro averi a seguito dei saccheggi e della distruzione dei loro negozi e delle loro case. Anche se alla fine il governo ha ristabilito la calma, gli ebrei sono stati cacciati dagli uffici pubblici, segregati nelle scuole, e hanno dovuto affrontare salatissime multe, il carcere, o il sequestro dei loro beni a seguito delle false accuse di far parte di uno di due movimenti messi fuori legge. Non solo, le leggi trattano il comunismo ed il sionismo come se fossero la stessa cosa. In Iraq, il solo fatto di ricevere una lettera proveniente da un ebreo della Palestina (pre-1948) è sufficiente per venire arrestati e veder sequestrati i propri beni”. Al nostro apice nel 1948, si contavano 135mila di noi ebrei iracheni, ed eravamo parte vitale in ogni aspetto della vita del Paese. Per illustrare meglio il nostro ruolo, ecco cosa scrive l’Enciclopedia Giudaica a proposito degli ebrei dell’Iraq: “Durante il ventesimo secolo, intellettuali, autori e poeti ebrei diedero un importante contribuito alla lingua e alla letteratura araba attraverso la stesura di vari libri e numerosi saggi”.

Nel 1950, dinanzi a me e agli altri ebrei iracheni si prospettava la revoca della cittadinanza, il sequestro dei beni e, terribilmente, addirittura l’impiccagione nella pubblica piazza. L’anno precedente, il primo ministro iracheno Nuri al-Sa’id, aveva raccontato all’ambasciatore britannico ad Amman del progetto di espellere l’intera popolazione ebraica mandandola al confine con la Giordania. L’ambasciatore racconterà poi quest’episodio nelle sue memorie, “Dai Corridoi: Memorie di Amman, 1947-1951”.

Nel 1951, circa 100mila ebrei riuscirono miracolosamente a fuggire grazie all’aiuto straordinario di Israele; tutto quel che possedevamo erano i vestiti che indossavamo. Gli israeliani diedero il nome di Ezra e Nehemiah a queste operazioni di salvataggio. Chi tra noi rimase lì, ci rimase in uno stato di paura costante, paura delle violenze e delle pubbliche esecuzioni, come quelle che avvennero il 27 gennaio 1969, quando nove ebrei falsamente accusati furono impiccati in pieno centro a Baghdad sotto gli occhi di centinaia di migliaia di iracheni che tifavano all’impazzata per le esecuzioni. A quel punto chi era ancora rimasto riuscì in qualche modo a fuggire. Tra questi c’erano alcuni miei amici che trovarono rifugio in Iran quando era sotto il dominio dello Scià. Ora lì non esistono più ebrei. Non ci sono monumenti, musei, o altri segni della nostra presenza sul suolo iracheno, che è durata ventisei secoli. C’è forse un cenno della nostra presenza, del nostro contributo positivo all’evoluzione della società e della cultura irachena nei libri di testo delle scuole del Paese? Neanche uno. Duemilaseicento anni di Storia cancellati, spazzati via come se non fossero mai accaduti. Riesci a metterti nei miei panni e sentire il dolore straziante della perdita e dell’invisibilità?

Io sono un ebreo dimenticato. Arrivai nella terra che ora si chiama Libia quando in Egitto regnava Tolomeo Lago (323-282 a.C.), come scrive Josephus, lo storico ebreo del primo secolo. I miei progenitori vissero in questa terra per oltre due millenni. Il nostro popolo cresceva grazie ai Berberi che si convertivano all’ebraismo, agli ebrei di Spagna e Portogallo che fuggivano dall’Inquisizione, agli ebrei italiani che attraversavano il mediterraneo. Dovetti affrontare la legislazione anti-ebraica che arrivò assieme alle forze di occupazione dell’Italia fascista. Nel 1942, fui internato assieme ad altri 2600 ebrei in un campo dell’Asse. Nello stesso anno, sopravvissi alla deportazione forzata in Italia di 200 ebrei, come me. Durante la guerra, fui costretto ai lavori forzati. Ho vissuto attraverso i moti musulmani del 1945 e del 1948, dove morirono quasi 150 ebrei libici, e dove centinaia furono feriti e migliaia persero la casa. Osservai con aria incerta quando, nel 1951, la Libia ottenne l’indipendenza. Mi domandai cosa sarebbe successo ai 6mila tra noi che erano ancora là, dei 39mila che formavano in origine una fiera comunità ebraica, fino a quando le rivolte li costrinsero a fare i bagagli e partire, scegliendo quale destinazione principale il neonato Stato di Israele. Di positivo c’era che la nuova Costituzione della nazione libica proteggeva i diritti delle minoranze. Di negativo, purtroppo, che queste protezioni furono completamente ignorate. Nei primi dieci anni dall’indipendenza mi fu tolto il diritto di voto; mi fu fatto divieto di assumere cariche pubbliche, di arruolarmi nell’esercito, di ottenere un passaporto, di acquistare immobili o terreni, di essere socio di maggioranza di una società, di partecipare nella gestione degli affari pubblici.

Nel giugno del 1967 non avemmo più scelta. Chi di noi era rimasto, sperando contro ogni evidenza che in una terra a cui eravamo profondamente legati e che, a volte, era stata buona con noi, le cose potessero migliorare, non poté fare altro che fuggire. A seguito della “Guerra dei sei giorni”, l’atmosfera per le strade era esplosiva. Diciotto ebrei furono uccisi, e le case ed i negozi degli ebrei furono rasi al suolo. Io dovetti fuggire assieme ad altri 4mila ebrei, portando con me una valigia fatta in fretta e i pochi spiccioli che avevo in tasca. Non mi fu mai concesso di ritornare. Nonostante le promesse del Governo, non mi fu mai restituito nulla di quello che avevo lasciato in Libia. Tutto mi fu rubato: le case, i mobili, il negozio, i beni della comunità, tutto. E come se non bastasse – non potei neanche visitare le tombe dei miei parenti. Quello fu un dolore particolarmente acuto. Mi raccontarono poi che quando nel 1969 il Colonnello Gheddafi prese il potere, i cimiteri ebraici furono distrutti, e le pietre tombali utilizzate per costruirci strade.

Io sono un ebreo dimenticato. Le mie esperienze – belle e brutte – vivono nella mia memoria, e farò tutto quel che posso per trasmetterle ai miei figli e ai miei nipoti, ma quante potranno assorbirne veramente? Quanto riusciranno a identificarsi con una cultura che sembra solo un cimelio di un passato distante che appare sempre più remoto e intangibile? Certo, è stato scritto qualche libro e qualche articolo sulla mia storia, ma diciamo che non sono stati proprio dei best seller. E comunque, è mai possibile che questi libri possano competere con il tentativo sistematico da parte dei leader libici di rimuovere qualunque traccia della mia presenza negli ultimi duemila anni? Potranno mai questi libri competere con un mondo che è rimasto a guardare indifferente la fine stessa della mia esistenza? Dai un’occhiata all’indice del New York Times del 1967, e vedrai da solo in che modo i quotidiani dell’epoca raccontarono della tragica fine di un’antica comunità. Io l’ho fatto: ci troverai poche misere righe e nulla più.

Io sono un ebreo dimenticato. Sono uno di centinaia di migliaia di ebrei che vivevano un tempo in nazioni come l’Iraq e la Libia. Eravamo quasi novecentomila nel 1948. Ora siamo rimasti in meno di 5mila, in prevalenza concentrati in due Paesi moderati, il Marocco e la Tunisia. Un tempo, le nostre comunità fiorivano in Aden, in Algeria, in Egitto, in Libano, in Siria, nello Yemen e altri Paesi, e le nostre radici erano antiche, di duemila anni e più. Ora siamo praticamente scomparsi. Perché nessuno parla di noi e della nostra storia? Perché il mondo si occupa incessantemente, ossessivamente, dei profughi palestinesi delle guerre in Medio Oriente del 1948 e del 1967 – guerre che, e questo non è un dettaglio, furono volute dai loro fratelli arabi – ignorando invece i profughi ebrei delle guerre del 1948 e del 1967? Perché il mondo crede che esista una sola popolazione di rifugiati del conflitto arabo-israeliano - o per essere più precisi: dal conflitto degli arabi contro Israele - quando, in realtà, le popolazioni di rifugiati sono due, e il numero dei nostri rifugiati è addirittura superiore a quello dei palestinesi? Ho passato molte notti insonni a tentare di capire il perché di questa ingiustizia. Dovrei prendermela con me stesso? Forse siamo stati noi, ebrei dei Paesi arabi, ad aver accettato il nostro destino in maniera troppo passiva. Forse abbiamo perso l’opportunità di raccontare la nostra storia. Guarda agli ebrei europei. Loro hanno scritto articoli, libri e poesie, hanno fatto cinema, teatro e pittura per raccontare la loro storia. Hanno descritto i periodi di gioia e i tempi delle tragedie, e l’hanno fatto in modi che hanno catturato l’immaginazione di molti non ebrei. Forse io sono stato troppo fatalista, troppo scioccato, troppo incerto dei miei talenti artistici o letterari. Ma non può essere quello l’unico motivo per cui mi ritrovo ad essere un ebreo dimenticato. Non è vero che non ho provato a fare rumore, l’ho fatto. Ho organizzato incontri e petizioni, ho allestito mostre, ho fatto appelli alle Nazioni Unite, ho incontrato funzionari di praticamente tutti i governi dell’Occidente. Eppure, sembra che tutto questo sia servito a poco. Anzi, la verità è che non è servito praticamente a niente. Non so se conosci l’acronimo Mego – My eyes glazed over (avevano uno sguardo annoiato e accondiscendente che lasciava trasparire che non vedevano l’ora che finisse l’incontro, N.d.T.). Era spesso quella l’impressione che leggevo negli occhi dei giornalisti, dei diplomatici, dei funzionari di governo mentre gli raccontavo degli ebrei delle terre arabe. Anche se potrei sempre fare di più in nome della Storia e della giustizia, non credo di dovermela prendere con me stesso. C’è una spiegazione fondamentale, molto più importante. Noi ebrei del mondo arabo, dopo la nostra fuga dall’intimidazione, dalla violenza e dalla discriminazione, abbiamo raccolto i pezzi delle nostre vite infrante e siamo andati avanti. La maggior parte di noi è andata in Israele, dove siamo stati accolti. I primi anni dopo il nostro arrivo non sono stati facili – abbiamo cominciato dal nulla e ci siamo dovuti fare da soli. Ognuno di noi aveva il suo personale livello di educazione, e invariabilmente, non possedeva quasi nulla in termini di beni materiali. Ma avevamo un qualcosa che ci sosteneva nel difficile processo di adattamento e di cambiamento culturale: il nostro incalcolabile orgoglio di ebrei, la nostra fede profonda, i nostri amati usi e i nostri rabbini, la nostra determinazione per il benessere e la sopravvivenza di Israele. Circa un quarto o un terzo di noi scelse invece di approdare verso altre sponde. Gli ebrei dei Paesi arabi francofoni andarono in Francia, oppure in Québec. Gli ebrei della Libia formarono le loro comunità a Roma e a Milano. Gli ebrei egiziani e libanesi si sparsero tra l’Europa e il Nord America, e alcuni scelsero il Brasile. Gli ebrei siriani immigrarono negli Stati Uniti, principalmente a New York, mentre altri ancora andarono a Città del Messico e a Panama. In ogni posto dove ci siamo stabiliti ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo ricreato nuove vite. Abbiamo imparato la lingua locale se non la conoscevamo già, abbiamo trovato lavoro, abbiamo mandato i nostri figli a scuola e, appena possibile, abbiamo ricreato le nostre congregazioni, per preservare i riti e i rituali che contraddistinguono la nostra tradizione.

Non sottovaluterei mai le difficoltà di coloro che, a causa dell’età, della salute o della povertà, non ce l’hanno fatta; ma in generale, abbiamo fatto passi da gigante, sia in Israele che negli altri Paesi. Sarò un ebreo dimenticato, ma la mia voce non rimarrà in silenzio. Non posso farlo, e se dovesse mai accadere, diventerei complice del revisionismo e del negazionismo storico. Ho scelto di parlare, perché non lascerò che il conflitto degli arabi con Israele venga definito, ingiustamente, attraverso una sola popolazione di profughi, quella palestinese. Ho scelto di parlare, perché quello che è accaduto a me sta accadendo oggi, con inquietanti similitudini, ai cristiani, altra minoranza nella regione, e ancora una volta vedo che il mondo sceglie di voltarsi dall’altra parte, come se rifiutarsi di affrontare la realtà sia mai servito a qualcosa. Ho scelto di parlare, perché mi rifiuto di essere un ebreo dimenticato.

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04