In morte di un tiranno

C’è qualcuno dalle nostre parti che piange la scomparsa di Fidel Castro. Forse è colpa di quel bizzarro riflesso condizionato indotto dall’ethos cristiano per cui al cospetto della morte di qualcuno si tende ad abbonargli tutti i debiti contratti con l’umanità, così da passare d’ufficio, appena esalato l’ultimo respiro, nell’elenco dei buoni. Tutti assolti davanti al tribunale della Storia. Innocenti un corno! Non sono tutti innocenti e Fidel Castro lo è meno degli altri. A meno che, per ragioni di convenienza politica, non si voglia fare il santino a un dittatore sanguinario. Questa è roba per la sinistra dei sognatori che hanno gli occhi foderati di salame. Per costoro Fidel è stato il padre della rivoluzione socialista, dell’utopia di un mondo perfetto. Peccato, però, che il suo “paradiso-in-terra” sia lastricato dei cadaveri delle migliaia di oppositori uccisi. Peccato che delle sue conquiste di libertà non ve ne sia traccia.

La leggenda di un “Líder Máximo” buono la si racconti alle centinaia di migliaia di cubani incarcerati, torturati, costretti a condizioni di vita disumane e degradanti solo perché colpevoli, o semplicemente sospettati tali, di essere in dissenso con il suo regime. Non stiamo a rifare la contabilità dell’orrore durato oltre mezzo secolo. Lo ha già fatto egregiamente ieri l’altro, sul nostro giornale, Stefano Magni. Ma per la sinistra social-comunista il “comandante” Fidel ha incarnato la speranza della vittoria finale. Bella roba, visti i risultati! Si dirà: un prezzo, anche di sangue, da pagare al cambiamento c’è sempre. Del resto fu proprio Castro a sostenere, nel 1959, che la rivoluzione non fosse un letto di rose. Ma la rivoluzione è stata questione di ore, al massimo di giorni, poi è calata l’interminabile notte della dittatura, è quella è un’altra storia.

Tristemente patetico è il giustificazionismo degli intellettuali radical-chic: a Cuba il welfare funziona, la sanità pubblica copre tutti e l’istruzione è garantita al popolo. Il fatto che i diritti individuali siano conculcati e la libera espressione del pensiero severamente vietata sarebbe solo un danno collaterale accettabile. E tanto basta per mettere in buona luce una dittatura sanguinaria? Ci si accontenta di sapere, come orgogliosamente riferiva Castro ai suoi intervistatori, che a Cuba “pure le prostitute hanno la laurea”? Chiediamoci piuttosto quanto valga la libertà di ogni singolo individuo. Se essa ha un valore tale da dare senso alla vita umana, com’è possibile giustificare chi abbia costruito il socialismo sul paradigma della violenza che educa e dell’oppressione che rende felici soltanto chi vi si sottometta senza riserve? È sul modello cubano che è stato coniato il temine “prigionieri di coscienza” per indicare tutta quell’umanità negata, sepolta nelle carceri di Stato, solo per aver tentato di esercitare il diritto al dissenso. Questa è la Cuba che ci consegna il criminale Castro nel giorno della sua dipartita. Non vi è in atto nell’isola caraibica alcuna radiosa stagione della democrazia. Di là da alcuni aggiustamenti di facciata procurati dalla nuova dirigenza de L’Avana per soli scopi di presentabilità nel consesso internazionale, il registro resta quello della feroce repressione del dissenso. Una prova? Stando ai dati della Commissione cubana per i diritti umani e la riconciliazione nazionale, nel solo mese di agosto del 2015, alla vigilia del viaggio del Papa Francesco nell’isola, vi sono state 768 incarcerazioni per motivi politici. Il fatto che un massacratore abbia tirato le cuoia è una buona notizia, ma non basta per dire che è finita. È bene dunque che non si molli la presa su L’Avana fin quando non sarà rovesciata la dittatura, anche se questa oggi si presenta vestendo un rassicurante e capitalistico doppiopetto. Quando muore qualcuno si è soliti dire: “Riposi in pace”. Ma non siamo a tal punto ipocriti come lo sono gli “statisti” occidentali. L’unica cosa sensata da dire, caro Fidel, è che tu possa marcire all’inferno. Come meriti.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:15