Storia contro ricordo

Il 23 di ottobre, cade l’anniversario della Rivoluzione Ungherese del 1956, in cui il popolo magiaro si sollevò contro l’oppressione dell’Urss comunista e dittatoriale.

Molti giornali, come giusto che sia, ne hanno dato menzione, raccontando ognuno quei momenti tragici. Sul Manifesto è comparso un articolo di Luciana Castellina, con il quale, la storica militante comunista, racconta come ha vissuto quei giorni convulsi. Era piuttosto giovane, allora, ed in quel giorno racconta che si trovava in Belgio, per questioni politiche, in un contesto in cui imperava la Guerra Fredda, e si viveva su fragili equilibri contrapposti. È un racconto personale, il quale, come tutte le storie volte al passato, risentono della dimensione sfumata e nostalgica del tempo trascorso, quanto delle passioni vissute. Ma la storia, come emette i suoi verdetti postumi, su cui riflettere, un tempo è stata presente; ed in quel presente c’era già chi aveva ragione, ed era dalla parte giusta, rispetto agli avvenimenti ungheresi e al comunismo.

Delle ragioni, e di quella “parte giusta”, nel racconto della Castellina non c’è nulla. La tensione emotiva che traspare nell’articolo non porta a nessuna considerazione di tal fatta. Ella, alla fine, afferma: “… io non partecipai alla protesta (contro i carri armati, ndr), pur con tutte le riserve sui regimi dell’Est e sui giudizi minimizzanti che pur senza censurare le informazioni, furono emessi dal Pci. Non lo feci non per non rompere la disciplina, ma perché c’era appena stato il XX congresso e l’Urss con Kruscev sembrava stesse cambiando; quello che stava succedendo a Budapest si presentava come un colpo di coda della vecchia guardia stalinista… (per noi) la minaccia principale restava l’imperialismo occidentale”.

Ma la sinistra non si comportò tutta allo stesso modo. Strappi importanti (soprattutto di intellettuali) ci furono anche nel Pci. Di quel che succedeva realmente, e delle sue motivazioni, se ne discuteva in quei giorni tragici su tutti i giornali. Di cui, per sua ammissione, la Castellina non si fidava, perché borghesi. Il racconto è rinchiuso tutto all’interno della storia comunista e del suo pensiero dell’epoca. È una storia ferma, solo evocativa, e senza nessuna presa di coscienza. Di quelle scelte non pagarono solo innocenti, ma anche la sinistra italiana, la quale non poté mai assurgere a diventare maggioritaria come in tutte le democrazie occidentali. E manca, ma c’è poco da meravigliarsi, la presa di coscienza di un inequivocabile dato storico: l’indubbia superiorità del socialismo su ogni tipo di comunismo. Compreso quello di stampo Togliattiano che parlava di un “partito nuovo”.

Eppure, è da sempre che nel socialismo si dibatteva su riformismo e rivoluzione. Su violenza e gradualità. E sul valore imprescindibile della libertà. Esperienze concrete ce n’erano. Come in Italia, ma non solo, il dibattito e lo scontro erano stati sempre forti. Il riformismo turatiano, quanto quello di Bernstein, lo sforzo di conciliare giustizia e libertà fatto dai fratelli Rosselli. L’austromarxismo, il quale ha tentato, con risultati importanti, di dare una nuova prospettiva al marxismo. E poi, Treves, Calogero, Capitini, Spinelli, col suo progetto di federazione europea, Valiani, Pannunzio e tanti altri ancora. Nenni, in fondo l’unico rivoluzionario rimasto all’epoca in Italia (non dimentichiamo che partecipò alla Settimana Rossa del 1914), non ebbe esitazioni rispetto alla condanna dell’invasione sovietica. Rompendo, di conseguenza, l’unità d’azione con i comunisti. Senza dimenticare, in tutto ciò, la tragedia degli anarchici e dai militanti del Poum in Spagna, trucidati dai comunisti. La lotta dei socialisti, non certo scevra di limiti e contraddizioni, è stata la lotta contro il dogmatismo.

Di tutto ciò, oggi, nel 2016, non c’è alcuna traccia nei ricordi della Castellina. Eppure, anche lei, in ritardo, fu una dissidente del Pci; radiata, con i suoi compagni del Manifesto, da un partito che, ancora nel 1968, non scelse la libertà, ma la tirannide comunista. Bobbio, nel suo “Quale socialismo?”, affermava che “una prima conseguenza dell’abuso del principio di autorità è sempre l’ottundimento dello spirito critico. Se una cosa l’ha detta Marx o è ricavabile da quel che ha detto Marx o un interprete autorizzato, la si prende per buona e non si va tanto per il sottile nel giudicarla e nel metterla al vaglio delle cose che succedono realmente”.

Mi si potrebbe obbiettare di scrivere critiche così severe su un articolo evocativo della comunista Castellina e, per giunta, pubblicato sul Manifesto. Ma se in Italia non si è mai arrivati, se non in maniera tardiva, incompleta e parziale, ad un riconoscimento del socialismo riformista e liberale come architrave della sinistra tutta, lo si deve anche a questi atteggiamenti; in cui il ricordo del passato appare puramente autocentrato quanto acritico. E se oggi, la stessa parola riformismo viene usata disinvoltamente dai politici dei più disparati colori, è probabile che il suo significato, e la sua valenza storica nel nostro Paese, non sono stati debitamente puntellati e riconosciuti attraverso un’analisi critica e autocritica.

Politicamente, le conseguenze si vedono ancora oggi.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:39