Trump-Clinton: Hunger Games

Bello il duello televisivo tra Donald Trump e Hillary Clinton di ieri l’altro. Affamati e crudeli gli sfidanti, come i lottatori di Hunger Games, la trilogia del potere di Capitol City ideata da Suzanne Collins.

Nell’auditorium della George Washington University di St. Louis, scelto come arena per il secondo confronto, c’era l’America tutta a rispecchiarsi nei contendenti. Loro non hanno deluso prestandosi a impersonare con sorprendente fedeltà due visioni del mondo opposte, nemiche. E i nemici si combattono senza esclusioni di colpi, come hanno fatto Hillary e Donald. L’odio è stato il filo conduttore del confronto: odio sincero, schietto, scevro da ogni ipocrisia.

I due si sono affrontati su argomenti di sostanza: riforma del sistema sanitario, revisione degli accordi commerciali con gli altri Paesi, difesa dei posti di lavoro, tasse – specialmente quelle che Trump avrebbe eluso – atteggiamento verso le comunità islamiche radicate nel Paese e ruolo geopolitico che assumerà l’America del dopo-Obama. “The Donald” ha segnato un punto dichiarando di voler dialogare con l’arcinemico Vladimir Putin per sconfiggere il terrorismo islamico. Ma era inevitabile che incespicasse a proposito delle dichiarazioni a sfondo sessista estrapolate da un suo video del 2005 e che hanno funzionato da bomba a orologeria sulla sua campagna elettorale. Trump si è difeso dicendo che si sarebbe trattato di frasi sbagliate, da spogliatoio, però innocue. La Clinton lo ha azzannato accusandolo di umiliare le donne e per questo inadatto a essere il presidente degli Stati Uniti. Donald non si è fatto chiudere nell’angolo. Le ha replicato ricordando il passato da molestatore sessuale di suo marito Bill e il fatto che lei, da avvocato, avesse difeso lo stupratore di una ragazza dodicenne. Alla candidata democratica non è riuscito il colpo del definitivo ko, ipotizzato da molti analisti alla vigilia del dibattito dopo che una parte del Partito Repubblicano aveva preso formalmente le distanze dal suo candidato a seguito dello scandalo delle frasi sessiste. Ed è proprio questo il punto chiave di una campagna elettorale che ha già una vittima annunciata: il Partito Repubblicano. È chiaro che Donald Trump stia conducendo una corsa in solitario non avendo più alle spalle gli “ipocriti moralisti” dell’establishment repubblicano, come lui li ha definiti, che lo hanno subìto come candidato senza mai amarlo.

Ora, se a dispetto dei sondaggi e dei rumors, l’eccentrico miliardario dovesse spuntarla, chi delle cariatidi del Gop potrà imporgli la linea da seguire? E, soprattutto, cosa resterà di una destra tradizionale repubblicana che vedrebbe trionfare il proprio candidato dopo averlo osteggiato apertamente? L’emisfero “democratico” spera che Trump non abbia chance di vittoria, ma trascura la consistenza di quella fascia di elettorato che odia Hillary Clinton. L’America profonda, nemica dell’upper class, non l’accetta perché vede convergere su di lei le forze negative che hanno lavorato ad aumentare la divaricazione sociale piuttosto che a ridurla. Hillary, per molti americani, è l’incarnazione dei poteri forti, di quel capitalismo finanziario dei Warren Buffet e dei George Soros che ha fatto fortuna a discapito delle classi medie e basse le quali si sono impoverite. Se Donald Trump è un rozzo sessista, Hillary Clinton si rappresenta come l’avatar dell’America fricchettona di Obama che ha stufato gli americani. Per di più Hillary è la bugiarda di professione: ha nascosto la verità anche sulla sua salute. E tra un macho ruspante e volgare e una mentitrice abituale l’America codina e puritana teme di gran lunga la seconda.

Chi contava che l’effetto scandalo avrebbe indotto Trump al ritiro era totalmente fuori strada. Il tycoon ha incassato il colpo e ora si prepara a sferrare qualche pugno sotto la cintura. Un consiglio agli amanti nostrani della nobile arte del pugilato: non siate precipitosi nell’assegnare il verdetto, mancano ancora molti round al suono del gong.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:11