Il rischio libico

Poco più di un anno fa, nel giugno del 2015, migliaia di jihadisti fedeli al Califfato di al-Baghdadi, guidati da Abu Ibrahim al-Misrati, sconfiggevano i soldati della Brigata 166 di Misurata e conquistavano la strategica città di Sirte, situata sulla costa a 433 chilometri da Tripoli e culla della famiglia di Gheddafi. In un contesto di quasi totale desertificazione istituzionale, dominato da clan rivali in lotta per la spartizione della ricca eredità post-gheddafiana, l’offensiva degli uomini del Califfo, cresciuti in numero e in forza militare nel giro di pochi mesi e tra essi molti ex seguaci del colonnello Gheddafi, era riuscita a sconfiggere anche le potenti milizie di Misurata, che avevano giocato un ruolo centrale nella deposizione del vecchio regime. Sirte era diventata la capitale di Daesh in Libia, con le stesse scene raccapriccianti di decapitazioni e mutilazioni che avevamo già visto a Mosul e Raqqa.

Quasi un anno dopo, il 12 maggio del 2016, il Governo di Accordo Nazionale nato su mediazione delle Nazioni Unite il 17 dicembre del 2015 e presieduto da Fayez al- Sarraj, ordinava al generale Mohamed al-Ghasri di muovere l’offensiva contro i jihadisti per riprendere la città costiera. L’operazione “Liberazione di Sirte”, dopo i primi successi, si è impantanata da giugno in un lungo assedio alle periferia della città, per la strenua difesa delle milizie del Califfato.

Ecco perché Washington, su richiesta di al-Sarraj, ha iniziato lunedì scorso una serie di raid aerei americani contro le postazioni jihadiste di Sirte. I portavoce del governo di Tripoli si sono affannati nel dichiarare che i bombardamenti americani avvengono in totale coordinamento con il comando e con il Consiglio Presidenziale del governo di concordia nazionale e che serviranno per la liberazione di Sirte e per l’annientamento dei terroristi, obiettivo condiviso da tutti i libici. Dopo i primi bombardamenti le forze filo-governative libiche hanno effettivamente ripreso l’offensiva sul terreno conquistando postazioni nella zona sud-est della città. Secondo le fonti locali i combattenti di Daesh a Sirte sarebbero poco più di un migliaio.

Barack Obama ha dichiarato di aver ordinato le operazioni dei suoi caccia su Sirte nell'ambito della sicurezza nazionale americana e dei suoi alleati europei, per garantire che le forze del legittimo governo libico siano in grado di finire il lavoro contro i terroristi. Gli Stati Uniti colpiranno Daesh ovunque si trovi e gli attacchi dei caccia americani su Sirte continueranno finché il governo libico lo richiederà.

Non riteniamo però che i bombardamenti americani siano il preludio ad una azione terrestre di forze internazionali. È improbabile infatti che il presidente americano, a pochi mesi dalla fine del suo mandato, intenda imbarcarsi in una coalizione internazionale contro l’Isis in Libia, sul modello di quella in Siria e in Iraq. Inoltre la maggioranza dei libici è assolutamente contraria ad una presenza straniera che giudica indebita interferenza negli affari interni.

Ecco perché restano coperte da segreto le operazioni che vedono impegnati da mesi uomini delle forze speciali francesi e inglesi in una guerra segreta contro i miliziani del Califfo e non senza grande imbarazzo il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, ha dovuto confermare pochi giorni fa l’uccisione di tre soldati d’élite francesi, caduti in combattimento nei pressi di Bengasi.

Indebolito dalla concorrenza del governo cirenaico di Tobruk e delle potenti milizie del generale Haftar, il presidente al-Sarraj, per conquistarsi consenso e legittimità interna, ha bisogno di una clamorosa vittoria contro l’Isis che può però ottenere solo con il sostegno occidentale. L’aiuto straniero rischia tuttavia di alienargli il favore dei libici, in un paese dove tutte le azioni esterne sono denunciate come un'impresa coloniale. E con il governo di al-Sarraj in difficoltà, i clan e le milizie tornerebbero a farsi sentire e il paese tornerebbe nel caos.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:45