Le donne musulmane protestano in india

La Shariah, la legge della religione islamica, stabilisce che il marito possa divorziare la propria moglie semplicemente pronunciando per tre volte la parola “talaq”, che in arabo significa “ti divorzio”.

Da quel momento la donna perde ogni diritto al mantenimento da parte del marito e spesso deve accollarsi anche il sostentamento dei figli. Un tempo si doveva andare davanti al mullah che chiedeva all’uomo di pronunciare la formula in tempi separati, per consentire un ultimo tentativo di riconciliazione tra la coppia, ma ai giorni nostri, la triplice parola di divorzio può arrivare anche per Facebook, WhatsApp o con un messaggio di posta elettronica.

Questa antica pratica, che lascia le donne senza alcun diritto, è stata abolita in molti paesi musulmani, ma è ancora accettata e molto usata in India, paese ufficialmente laico. La popolazione musulmana dell’India è la terza maggiore del mondo, famosissimi i monumenti dell’architettura islamica, come il Taj Mahal e il Qutb Minar. Secondo la costituzione, la nazione è una repubblica laica che deve però difendere il diritto di ognuno dei propri cittadini a poter esprimere liberamente il suo culto e diffonderlo; il diritto alla libertà di religione è riconosciuto uno dei diritti fondamentali dell’essere umano. Per garantire la libertà di culto, ogni confessione ha il diritto di applicare le proprie norme religiose; uno dei settori di applicazione è l’ambito familiare.

I 155 milioni di musulmani indiani sono perciò regolati dalla legge federale Muslim Personal Law Application Act che si basa sui principi della Shariah. La Muslim Application Act riconosce dunque il “triplo talaq”, al quale sono ricorsi negli ultimi tempi moltissimi mariti indiani per lasciare mogli e figli al loro destino. Se le anziane accettavano con rassegnazione il ripudio islamico, non è più il caso con le giovani generazioni. Centinaia di giovani donne, divorziate frettolosamente da mariti desiderosi di ritrovare la “libertà” o piuttosto di scaricarsi la responsabilità di crescere una famiglia, si sono appellate alla Corte suprema indiana contro questa pratica. Molte Ong e non solo femminili o musulmane hanno dato vita ad una campagna di protesta sui social media e con sit-in davanti alle moschee e ai tribunali. Le donne musulmane indiane si sentono trattate come cittadine di seconda classe e sono discriminate da un’interpretazione errata della religione islamica, urlano nelle piazze le loro leader che hanno anche indirizzato petizioni abrogative sulla pratica del “talaq” al Congresso Indiano.

Sondaggi effettuati nelle comunità islamiche indiane hanno rilevato che la stragrande maggioranza delle donne è favorevole all’abolizione della pratica del “talaq”. Sulla questione sono intervenuti anche esperti e cattedratici indiani della dottrina islamica. Secondo alcuni, il Corano prevede il divorzio in 90 giorni dalla pronuncia del primo talaq, con un periodo di 30 giorni tra ogni talaq per consentire ulteriori tentativi per la riflessione e la riconciliazione.

In questo senso, secondo la maggior parte degli esperti, il ripudio, “talaq”, istantaneo è diverso dai precetti del Corano ed è diventato piuttosto un atto arbitrario che nulla ha a che fare con la Shariah. L’onda della protesta delle donne sta crescendo ma i leader musulmani indiani sembrano riluttanti a cambiare la legge, per paura che un cedimento su un punto possa portare alla dissoluzione dell’identità religiosa e della libertà di culto islamica e in ultima analisi possa mettere a rischio la stessa sopravvivenza della comunità in India, specialmente in tempi difficili per le minoranze religiose.

Dall’ascesa al potere del leader del Partito Popolare indiano e ultranazionalista Narendra Modi, diventato primo ministro nel 2014, si è registrato infatti un incremento dell’estremismo indù - è induista oltre l’80 per cento della popolazione - in molte parti del Paese. Sono state date alle fiamme moschee e luoghi di culto cristiani e di altre confessioni e grande è la pressione sul primo ministro, anche da parte di diversi membri del Governo, perché riveda i diritti delle minoranze religiose e abolisca le leggi a loro destinate. Di fronte all’acuirsi del contrasto politico c’è solo da sperare che non si fermi la legittima rivoluzione delle donne musulmane indiane.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:01