Qualche missille per coprire il fallimento

mercoledì 28 agosto 2013


Parafrasando Friedman sulle tasse, chi mi segue sa che «sono favorevole a buttare giù una dittatura in qualsiasi circostanza e con qualsiasi scusa, per qualsiasi ragione, ogni volta che è possibile». Ma di questo si tratta nel caso dell'intervento militare che sta valutando Obama in Siria? E' lecito dubitarne. E' talmente tardivo che è davvero difficile ravvisarne logica e obiettivi politici. La durata (pochi giorni) e le modalità (lancio di missili) fanno pensare ad un atto dimostrativo piuttosto che ad un intervento mirato a (e in grado di) provocare un cambio di regime. E Washington sembra comunque intenzionata a restare defilata nell'eventuale post-caduta del regime, come già in Egitto e Libia.

Per due anni, praticamente disinteressandocene e non schierandoci, chi illudendosi di poter convincere con le buone Mosca e Teheran ad abbandonare le proprie postazioni a Damasco, chi confidando nei sauditi, abbiamo permesso che la ribellione contro il regime di Assad in Siria si trasformasse in una guerra tra estremisti sunniti (al Qaeda) e fondamentalisti sciiti (Iran, Hezbollah). La scomoda verità è che al Qaeda è stata più svelta dell'Occidente nell'approfittare della crisi del regime siriano per tentare di assestare un colpo mortale alle aspirazioni egemoniche iraniane e russe sulla regione, al fine ovviamente di sostituirvi le proprie. E abbiamo lasciato che fosse l'Arabia Saudita ad aiutare i ribelli, con il risultato, come altrove in passato, che Assad, sostenuto da Teheran, sembra poter resistere, e che i sauditi hanno lasciato troppo spazio ai jihadisti.

Nelle fasi iniziali un aiuto occidentale diretto o indiretto avrebbe potuto garantire la leadership della ribellione alla parte migliore dell'opposizione ad Assad, quella laica, di civili ed ex militari, limitando quindi le infiltrazioni jihadiste e controllando da vicino come si sviluppava in concreto, sul terreno, l'ingerenza saudita. Ma ora che il conflitto si è trasformato in una guerra settaria tra terroristi sciiti e sunniti, è davvero arduo intervenire contro gli uni senza aiutare gli altri. Nella migliore, ma nient'affatto scontata, delle ipotesi, l'intervento favorirebbe l'Arabia Saudita, con la quale condividiamo, è vero, l'interesse a contenere gli ayatollah, ma che come sempre non è altrettanto netta e limpida nel contrastare l'integralismo e il terrorismo di matrice sunnita. Insomma, un altro fallimento del "leading from behind".

Obama ha dormito per due anni - mentre nel frattempo si concedeva la passerella contro il folcloristico Gheddafi - non s'è avvantaggiato in alcun modo della crisi siriana nei confronti di Russia e Iran (anzi!). Ora però è stata oltrepassata la "linea rossa": l'uso di armi chimiche. Quale ipocrisia! Prima di tutto, un massacro indiscriminato di civili è tale a prescindere dalle armi usate, se i macete o armi chimiche, e in quest'anno e mezzo se ne sono visti in abbondanza. Inoltre, prove dell'uso di armi chimiche sono emerse già mesi e mesi fa. Non sarà forse che ora sono aumentate le pressioni saudite, dato che senza intervento esterno Assad potrebbe addirittura prevalere?

Non c'è nulla di più vile però che nascondersi dietro l'assenza di un mandato Onu per dire no all'intervento militare in Siria. Significa infatti farsi dettare la politica estera e di sicurezza da Russia e Cina. Emma Bonino così facendo non fa certo onore alla sua storia politica, ma almeno rispetto ai suoi critici di sinistra non aderisce al doppio standard: Bush non poteva deporre Saddam senza autorizzazione Onu ma Obama può attaccare Assad? Perché? Il primo violava il diritto internazionale e Obama no? Perché? Purtroppo sì, l'Occidente si sta riavvitando di nuovo sui soliti aspetti marginali, come l'uso di armi chimiche o il mandato dell'Onu, mentre la questione centrale dovrebbe essere: come agire per ottenere cosa?

Se si tratta di un attacco dimostrativo, utile solo a Obama per salvare la faccia di fronte ai massacri di civili, e come contentino all'Arabia Saudita, allora le perplessità sono più che legittime. Se l'obiettivo invece è il regime change, bisogna puntare almeno ad uccidere Assad, come suggerisce Bret Stephens, o a farlo cadere, e bisogna avere un piano per un impegno deciso e duraturo volto a favorire un nuovo ordine in Medio Oriente, non per defilarsi e delegare tutto ai sauditi non appena caduta l'ultima bomba. Non mi pare quest'ultimo però il nostro caso.

Il fallimento di Obama è non avere una visione di politica estera, ma agire opportunisticamente, subendo gli eventi anziché cercando di influenzarli. Non ha un piano, né visione o principi, ma solo potenziali problemi di immagine su cui mettere una frettolosa toppa. La sensazione è che questo attacco gli serva per rispondere a chi lo accusa di essere rimasto indifferente ai massacri, per far vedere di averci provato... ma lui non affronta le sfide, fa "spin doctoring". E uno dei problemi del Medio Oriente oggi è che gli Stati Uniti non toccano palla in Medio Oriente.

Molti di sinistra in queste ore stanno rievocando l'interventismo democratico di Clinton e Blair per giustificare l'intervento contro il sanguinario Assad (definito solo pochi mesi fa un «riformatore» - non va dimenticato - dal precedente segretario di Stato di Obama), ma è un riferimento a sproposito: in quello che Obama sta per fare in Siria non c'è un'unghia di quello che fecero Clinton e Blair nei Balcani. Giuste o sbagliate che fossero, e a prescindere dagli errori commessi nella loro concreta applicazione, altri presidenti americani, da Clinton al tanto vituperato Bush, avevano una dottrina, una strategia, un'idea abbastanza definita sul nuovo ordine da favorire, nei Balcani così come in Medio Oriente. Obama mostra invece di non averne.


di Federico Punzi