Trent’anni e (quasi) non sentirli

martedì 2 gennaio 2024


È da poco cominciato il 2024. E sono passati trent’anni da quando Arturo Diaconale trasformò il nostro giornale in un quotidiano. Arturo era arrivato a L’Opinione un paio d’anni prima, per dirigere l’allora settimanale del Partito Liberale Italiano, chiamato da Renato Altissimo con il compito di invertire la linea lib-lab dettata ai tempi della segreteria di Valerio Zanone. Poi il golpe mediatico-giudiziario di Mani Pulite fece scomparire il Pli insieme a tutti i partiti della Prima repubblica (tranne uno: indovinate quale?) e L’Opinione si trovò di fronte a un bivio: scomparire come il proprio referente politico o rinascere in una veste totalmente nuova. Arturo, da combattente quale era, naturalmente scelse la seconda strada. E L’Opinione, il 14 dicembre del 1993, tornò in edicola come quotidiano.

Eravamo una redazione piuttosto eterogenea. C’erano i “sopravvissuti” dell’epoca Pli: giovanotti di belle speranze come il sottoscritto, come Cristina Missiroli (oggi autrice televisiva a La7 e amica da sempre e per sempre), Vittorio Macioce (caporedattore de Il Giornale, scrittore, penna sublime e alleato in mille avventure), Fausto Carioti (vicedirettore di Libero e mio fratello eterno), Nicola Porro (anche lui a Il Giornale e nome di punta a Mediaset), Marco Ferrante (dirigente a Mediaset dopo una brillante carriera in tv e carta stampata), Maurizio Stefanini (vulcanico freelance che collabora con Il Foglio, Libero e Linkiesta).

Qualcuno restò a lungo a L’Opinione, qualcun altro trovò presto un’altra strada. Ma c’erano tutti, in quei primi mesi del 1994, quando l’Italia si preparava a soccombere alla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto e non si aspettava certo di essere “salvata” dall’intuizione geniale con cui Silvio Berlusconi, dal nulla (o quasi) inventò il centrodestra italiano e contese il potere per decenni ai nipotini di Stalin.

Molti altri, poi, erano entrati in redazione – con i ruoli più diversi – attratti dalla possibilità di scrivere in uno dei pochi giornali realmente liberi del tempo. Come Francesca Oliva, oggi vicedirettore a RaiNews 24 e, purtroppo per lei, mia dolce metà e madre dei miei figli. Non li cito per esigenze di spazio, ma quasi tutti sono diventati giornalisti affermati e sono sicuro che ricordano con un pizzico di nostalgia quei tempi spensierati di precarietà permanente. Sopra a tutti noi, poi, c’erano i “grandi vecchi”, che avevano il compito di controllare (e far crescere) i suddetti giovincelli. Ne cito uno per tutti: il caporedattore Franco Oliva, calabrese e cittadino del mondo, già giornalista affermato, direttore di molte testate e corrispondente dagli Stati Uniti, che mi ha insegnato le basi del mestiere ed è diventato uno dei miei punti di riferimento professionali, oltre che mio suocero.

Oggi Franco non c’è più, come non ci sono più Arturo e la maggior parte dei “grandi vecchi” che ci hanno cresciuto. Ma L’Opinione, dopo tre decenni, continua pervicacemente a sopravvivere. Contro ogni previsione. Soltanto questo dato di fatto meriterebbe, di per sé, una celebrazione.

Ci sarà poi l’occasione, il 28 marzo di quest’anno, per ricordare il giorno in cui, sempre contro ogni pronostico, il centrodestra impedì la vittoria della sinistra alle elezioni politiche del 1994. La sera in cui la folla festante a Piazza del Popolo sventolava la prima pagina dell’edizione straordinaria de L’Opinione ancora fresca di stampa. Per ora, ci basta ricordare a tutti i nostri lettori, quelli che ci sono stati vicini in questi anni e quelli che ci hanno conosciuto da poco, che anche nel 2024 L’Opinione continuerà, come ha sempre fatto, a combattere la sua battaglia di libertà contro le follie “woke” della sinistra, contro l’analfabetismo di ritorno dei neo-comunisti (rossi o verdi che siano), contro la gestione militare del sistema giudiziario esercitata da una parte (sempre la stessa) della magistratura. E continuerà a diffondere idee capaci di ampliare gli spazi di libertà di ciascun individuo. Senza museruole ideologiche, ma senza abbassare la testa di fronte alla narrazione dominante.

È una promessa che facciamo ad Arturo, a Franco e a tutti quelli che ci hanno insegnato come stare al mondo.


di Andrea Mancia