La notizia della condanna di Piercamillo Davigo a quindici mesi di reclusione, invece di sollecitare la soddisfazione dei suoi avversari politici, credo debba indurre ad un sentimento di autentica amarezza per come si è svolta tutta la vicenda.
I due principali protagonisti sono Paolo Storari, pubblico ministero di Milano, e appunto Davigo.
Il primo, ritenendo censurabile la mancata azione del Procuratore capo con riferimento ai verbali secretati in cui l’avvocato Piero Amara ipotizzava una società segreta di nome “Ungheria”, invece di percorrere le vie istituzionali come ci si aspetterebbe da chi indossa la toga – e cioè investire della questione in modo ufficiale il Procuratore generale della Corte d’Appello di Milano e poi, se fosse stato necessario, il Procuratore generale presso la Cassazione e il Consiglio Superiore della Magistratura – pensa bene di incontrare privatamente il collega Davigo, più anziano e navigato e componente del Csm.
L’incontro avviene in modo riservato, come si trattasse di due scolaretti di cui il più grande debba consigliare al più piccoletto il modo migliore per cavarsi d’impaccio per una marachella commessa. Eppure sono due magistrati in servizio da decenni e, per di più, per anni in Procura, luogo elettivo di primo intervento sulla realtà.
Il secondo – Davigo – appreso di cosa si trattava, invece di consigliare il più giovane collega nel senso di percorrere le vie ufficiali ed istituzionali, si fa consegnare i documenti in suo possesso e, autoproclamandosi esclusivo detentore del potere sovrano della giustizia, gira in lungo e largo mostrando ad una dozzina di soggetti diversi il nome di Sebastiano Ardita, suo collega ed amico poi divenuto “nemico”, indicato nelle carte come appartenente alla associazione segreta denominata “Ungheria”, allo scopo di screditarlo.
Certo, Storari manifesta una qualche perplessità per questo inusuale e privato modo di procedere, ma viene subito rassicurato da Davigo, che ciò facendo, sembra qui assumere perfino toni letterari, evocando il celebre “omnia munda mundis con il quale Fra Cristoforo zittisce il frate guardiano, preoccupato per l’ingresso notturno in chiesa di sconosciuti, fra i quali due donne (Lucia e Agnese).
E al pari di Fra Cristoforo, Davigo supera ogni perplessità di Storari, il quale, dal canto suo mostra perciò di non capire come la divulgazione di quelle carte costituisca reato. E a tal segno non lo capisce, che nel procedimento penale cui verrà poi sottoposto, verrà assolto da ogni accusa per mancanza dell’elemento soggettivo, perché insomma non ha compreso la illiceità giuridica del suo comportamento.
E questa assoluzione suona come condanna: non in senso giuridico ovviamente, bensì – il che è anche peggio – morale, umano: perché c’è da chiedersi come possa mai giudicare le azioni degli altri chi non comprende il disvalore neppure delle proprie.
Davigo, dal canto suo, non solo consuma il reato di rivelazione di segreti d’ufficio, ma, dopo essere stato condannato, non lo capisce neppure e dichiara che rifarebbe tutto ciò che ha fatto.
In realtà bastava un poco di normale buon senso per capirlo subito che cercare di risolvere privatamente un problema che era pubblico significa – come ha ribadito il pubblico ministero che ha chiesto la sua condanna, ottenendola – voler difendere la giustizia, attraverso una sua violazione. Un paradosso che suscita più preoccupazione che ilarità.
Non solo. Davigo si è affrettato a dichiarare che la sua condanna è viziata da errori in fatto e in diritto e che perciò presenterà appello. È un suo inalienabile diritto. Soltanto che dichiarando l’intento di appellarsi, Davigo si condanna da sé, ancora una volta, non in senso giuridico, ma umano, il che – lo ribadisco – è peggio. Infatti, per decenni Davigo si è battuto per arginare la possibilità di appellarsi, per limitare l’ammissibilità di appelli e ricorsi, allo scopo di velocizzare i processi, quasi fosse preferibile far presto anche se male, invece di far bene anche se tardi.
Dimenticava, fra l’altro, che, come ammonisce Seneca, cito scribendo, non fit ut bene scribatur; bene scribendo, fit ut cito, che vale “scrivendo in fretta, non accade di scriver bene; scrivendo bene, accade di scrivere in fretta”.
Non potendo abolire l’appello, pretendeva allora che fosse abolito almeno il divieto di riformare in peggio la sentenza di primo grado, quando ad appellare fosse il solo imputato.
È come insomma se per uno scherzo del destino, Davigo, presentando appello contro la sua condanna, garantito dal divieto di riforma in peggio dal mancato appello del pubblico ministero che ha visto accolta la propria richiesta, fosse stato costretto a rinnegare se stesso, il proprio credo ideologico, quello di cui per molto tempo si son nutriti Travaglio, Scanzi, la Gruber ed altri simili giacobini. Egli si avvale così per se stesso proprio di quei diritti che avrebbe voluto negare agli altri. Sia che fosse in seguito assolto – cosa che gli auguro di cuore – sia di nuovo condannato, nulla più importa.
La peggior condanna, Davigo – che non incontrerà altri Davigo nel suo percorso processuale – la sta già scontando in questi giorni. Non perché dichiarato colpevole, ma perché ha dovuto smentire con i fatti ciò che per decenni – osannato come un profeta dell’etica pubblica – ha predicato da ogni dove. Come ribadisce la scolastica, contra factum, non valet argumentum. E qui non occorre tradurre.
Aggiornato il 26 giugno 2023 alle ore 09:07