La Cupola crollata

mercoledì 18 gennaio 2023


Pinocchio e il “testamento” del fu Matteo Messina Denaro

Matteo Messina Denaro, il capo dei capi di Cosa Nostra – mai formalmente riconosciuto tale dai suoi sodali – è stato catturato. Una grande notizia che restituisce morale e slancio agli uomini e alle donne delle istituzioni, impegnati da anni a braccarlo. L’arresto dell’ultimo dei capi-stragisti degli anni Ottanta-Novanta della mafia guidata dai corleonesi è un balsamo per l’Italia pulita e perbene, che con la criminalità organizzata non è mai scesa a patti. Le modalità della cattura mettono in luce l’ottimo lavoro compiuto dagli investigatori i quali, con pazienza certosina, hanno continuato negli anni a raccogliere e mettere in fila indizi fino al punto d’individuare con geometrica precisione la posizione del ricercato. L’hanno preso lì dove gli inquirenti si aspettavano che fosse, in una clinica privata a curarsi come un qualunque altro cittadino, ma sotto falso nome.

La cattura di Messina Denaro archivia per sempre la pagina più sanguinosa della storia della mafia. Un colpo di fortuna che non guasta per il Governo Meloni, che potrà rivendicare, tra i risultati conseguiti, anche l’aver tolto dalla circolazione il più pericoloso tra i mafiosi in attività. Tuttavia, è bene dirsi che un arresto, per quanto eccellente, non deve condurre a conclusioni errate in ordine alla sconfitta del fenomeno mafioso nella sua complessità. Aver tagliato la testa del serpente non implica che il serpente sia morto. Al contrario, l’evoluzione dell’organizzazione criminale in Sicilia negli anni trascorsi dalla cattura di Totò Riina, datata 1993, attesta il passaggio da una struttura verticale, ordinata su base rigidamente gerarchica, il cui vertice era chiamato icasticamente “Cupola”, a un’altra di tipo tentacolare, radicata capillarmente sul territorio con micro-centri di potere dotati di maggiore autonomia decisionale rispetto al passato, in grado di rigenerarsi rapidamente nel caso di crisi dei livelli di comando. Il “boss” è stato preso, ma né il suo patrimonio occulto – la quota già sequestrata dalla magistratura ai suoi prestanome è stimata in circa 4 miliardi di euro – né la rete di relazioni sviluppata, in quella che un delinquente della criminalità capitolina definirebbe la “terra di mezzo”, al momento sono stati colpiti. Il problema con il quale dovranno cimentarsi gli inquirenti, da oggi, sta nel ricostruire l’intera filiera malavitosa che ha consentito al capomafia non solo di restare uccel di bosco per ben trent’anni, ma di riconvertirsi da brutale pluriomicida in mafioso-manager in grado di ordinare ai rami finanziari dell’organizzazione di reinvestire i profitti criminali in attività lecite. Al riguardo, le inchieste giornalistiche spesso si sono focalizzate sulla passione di Messina Denaro per il mercato dell’eolico. Riprendendo il filo del discorso, lo ha detto a chiare lettere il procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio De Lucia, nel corso della conferenza stampa post-cattura: “C’è una fetta di borghesia mafiosa che ha aiutato questa latitanza, su questo abbiamo contezza e ci sono in corso delle indagini”.

Dopo anni spesi colpevolmente a inseguire immaginifiche teorie complottiste circa fantomatiche intese organiche tra mafia e pezzi dello Stato, valse soltanto a rovinare la vita a valorosi servitori del Paese – sull’argomento rimandiamo alla lettura del mirabile articolo di Ferdinando Fedi pubblicato sulle colonne de L’Opinione – negli ultimi tempi l’apparato inquirente-investigativo siciliano ha messo a fuoco perfettamente l’obiettivo di un’efficace lotta alla mafia: la contiguità dell’organizzazione criminale con settori della borghesia connivente. Da persone comuni, senza alcuna pretesa di competenza specifica in materia di contrasto alla criminalità, basandoci sul vistoso calo degli omicidi di mafia negli ultimi anni – un’indagine condotta da Truenumbers sui dati ministeriali ha registrato, nel 2019, 28 omicidi attribuibili alle cosche contro le 2.638 vittime di mafia del quadriennio 1989-1992 – da tempo sosteniamo che la maggiore minaccia all’ordinato andamento della società e dell’economia del Paese non provenga dal profilo del troglodita, che imbraccia la lupara e nasconde lo sguardo sotto la visiera di una coppola, ma da quello del professionista perfettamente inserito nella comunità, con alte competenze tecniche.

Con Messina Denaro finisce un’epoca. Quella che si apre non vedrà protagonisti personaggi malavitosi dai soprannomi improbabili come “û curtu, Binnu ’u tratturi, U siccu”. Agli inquirenti toccherà passare al setaccio gli elenchi di alcuni ordini professionali per ricostruire storie individuali e incroci relazionali insospettati. La mafia-società per azioni che investe, al pari della ’Ndrangheta e della Camorra, somme colossali per acquisire attività imprenditoriali in Italia e all’estero; che opera con propri capitali sulle principali piazze finanziarie del mondo; che è presente nei pubblici appalti. Pensate che tutto ciò sia opera dei vecchi capi semianalfabeti, campioni di brutalità e di “ammazzatine”? La violenza è attività delegata alla bassa manovalanza, che anche in Sicilia negli ultimi anni ha registrato l’incremento della malavita minorile di stampo mafioso organizzata nelle “paranze” sul modello delle bande minorili campane, mentre la costruzione di reti affaristiche diffuse, difficilmente intercettabili, è materia dei piani alti della struttura criminale. Quando gli investigatori cominceranno ad aggredire l’élite mafiosa, sui giornali finiranno le foto segnaletiche di avvocati, commercialisti, dirigenti d’azienda, operatori finanziari, imprenditori, grand commis di Stato, ingegneri, sanitari. Altro che i quattro picciotti di Lucianeddu, al secolo Luciano Leggio, primo dei “corleonesi” a guadagnare la ribalta della cronaca giudiziaria nazionale.

Ma, sulla scorta di quanto è accaduto in Campania in seguito alle guerre di Camorra e all’azione efficace dello Stato, che hanno letteralmente decimato i vertici dei clan malavitosi, anche in Sicilia, per un improvviso vuoto di potere determinato dalla cattura di Matteo Messina Denaro, se non “capo dei capi” comunque punto di riferimento centrale della multiforme organizzazione mafiosa, potrebbe verificarsi, con l’interruzione della catena di comando, un singolare fenomeno socio-economico, che potremmo definire “sindrome di Pinocchio”. Di cosa si tratta? In Campania, dagli anni Ottanta-Novanta, la Camorra si è impossessata di segmenti dell’economia locale, sostituendosi alla classe imprenditoriale tradizionale mediante l’utilizzo spregiudicato di una leva di prestanomi e di “teste di legno”, fittizi intestatari delle attività commerciali rilevate dai clan allo scopo di farne principalmente “lavanderie” per il riciclaggio dei proventi illeciti. Gli utili leciti, prodotti dalle imprese commerciali, tornavano – attraverso il meccanismo delle “scatole cinesi” – nelle disponibilità delle organizzazioni camorristiche che a loro volta li reinvestivano per finanziare le attività criminali e per sostenere il costo del welfare interno, costituito dal sostentamento garantito alle famiglie degli affiliati ai clan incarcerati o menomati o deceduti per cause di servizio, a voler usare un macabro eufemismo. L’improvvisa sparizione dalla circolazione dei capi, la maggior parte dei quali deceduti o finiti al “41-bis”, che imponevano, ma anche garantivano, il regolare flusso di liquidità di rientro dalle attività legali, ha reso inopinatamente le “teste di legno” imprenditori liberi di disporre di patrimoni e di capitali senza che alcuno gliene chiedesse più conto. L’interruzione del rapporto fiduciario tra capoclan e prestanome ha permesso a molti “Pinocchio” di camminare sulle proprie gambe e di rifarsi una verginità, facendo un astuto sfoggio di adesione alle lotte per la legalità.

Non è escluso che un prolungato vuoto di potere nell’organizzazione mafiosa, apertosi con la cattura di Messina Denaro, potrebbe provocare una sorprendente emancipazione di molti soggetti imprenditoriali, finora espressione occulta del sistema mafioso. L’auspicio è che gli inquirenti non abbassino la guardia e vigilino, adesso più di prima, sulle improvvise quanto sospette conversioni che potranno illuminare di nuova luce molte storie opache. Beninteso, il ravvedimento è sempre possibile ma per valere deve essere preceduto dalla riconsegna del maltolto alla gente onesta e perbene a cui è stato sottratto dai Messina Denaro di turno con la forza dell’intimidazione mafiosa. Se per mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti non vi potrà mai essere amnistia, ugualmente per le “teste di legno” di ieri e “Pinocchi” di oggi non vi dovrà essere condono che consenta di tenersi ciò che a loro è stato dato, senza che ne avessero merito né titolo. È giunto il momento che lo Stato si spenda per garantire le vittime prima ancora di preoccuparsi delle posizioni giudiziarie dei carnefici e dei loro burattini.


di Cristofaro Sola