La fortuna di votare adesso

mercoledì 21 settembre 2022


L’avete ascoltata l’ultima conferenza stampa di Mario Draghi? È parsa la conversazione tra amici di un uomo rilassato. Ha ben ragione il premier a godersela giocando a freccette con i suoi mai graditi sponsor partitici. Ha fatto di tutto per scaricarsi dal groppone il peso di un Paese in gravi difficoltà e, alla fine, c’è riuscito.

La prossima domenica si vota. Di certo, indipendentemente da chi vincerà, non sarà lui a dover cantare e portare la croce della nazione. La possibilità di un suo ripescaggio a Palazzo Chigi, invocata da Enrico Letta, Matteo Renzi, Emma Bonino e Carlo Calenda è l’ennesima, disperante illusione ottica di una sinistra che non ha più idee. D’altro canto, il secco No, scandito in conferenza stampa dall’interessato per rispondere a chi gli chiedeva di un possibile Draghi bis, non lascia dubbi. Intendiamoci, Draghi non esce di scena da “Cincinnato”, non è il ritorno agli ozi privati del condottiero dopo la sfolgorante vittoria in battaglia. È piuttosto la fuga di un personaggio che ha preso atto di aver fallito la prova dell’autorevolezza sulla scena internazionale. Quell’autorevolezza che, a sentire i “devoti” progressisti, dovrebbe essere il suo marchio di fabbrica. É lui che ha manovrato per andarsene visti gli scarsi risultati ottenuti sul piano della solidarietà tra Paesi alleati nella coalizione anti-Russia. E noi, condividendo il suo sentimento, non attendiamo altro che se ne vada. Senza alcun rimpianto, giacché il suo allontanamento libera la speranza che, modificato il quadro politico, una diversa maggioranza politica possa trovare le soluzioni giuste per tirare fuori il Paese da una crisi che solo in parte è figlia della congiuntura globale. Se siamo nei guai più degli altri è perché nel vicolo cieco dell’impasse economico-sociale ci ha infilato l’attuale Governo con le sue scelte dissennate. Oggi non lo si può dire a voce alta perché per il mainstream progressista è reato di lesa maestà. Il condizionamento di chi detiene le leve del potere, a cominciare dal circuito della comunicazione, è tale che si racconta all’opinione pubblica una realtà rovesciata. Si vorrebbe una nazione in preda al panico per il fatto che l’uomo della Provvidenza ha dato forfait.

Eppure, la plaga popolata da orfani del draghismo non la vediamo segnata sulla carta geografica dell’Italia. Sarà un nostro deficit percettivo ma la sensazione che cogliamo a pelle dal quotidiano confronto con la gente comune è di una crescente “incazzatura” non già per le sorti di Draghi ma per l’impazzimento delle bollette di luce e gas e per l’aumento insostenibile dei prezzi di tutti i beni di prima necessità. L’elaborazione del lutto è questione che impegna il “palazzo”, per nulla la “piazza”. E i mercatini rionali. Avrebbero dovuto capirlo i leader di quei partiti che presentano come unico punto programmatico riportare Mario Draghi a Palazzo Chigi. Peggio per loro, scopriranno fin troppo presto quanto il bisogno di aggrapparsi al feticcio del migliore-di-tutti sia una loro ossessione, per niente avvertita dalla maggioranza degli italiani.

Quei leader “piagnoni” dovrebbero invece essere grati ai partiti che, lo scorso 20 luglio, lo hanno accompagnato alla porta. E ancor più grati dovrebbero essere al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che fiutando l’aria da vecchia volpe democristiana, si è precipitato a indire le elezioni prima che la situazione del Paese sfuggisse di mano a tutti, lui compreso. Già, perché, comunque vada il prossimo 25 settembre, il quadro politico che uscirà dalle urne, pur rimescolando i rapporti di forza, confermerà in linea di massima la presenza in Parlamento dei partiti e dei movimenti che hanno animato la scena in questo ultimo scorcio di Seconda Repubblica. Se si fosse votato la prossima primavera, cioè dopo il passaggio della “tempesta perfetta” sul nostro Paese, è difficile immaginare cosa e chi sarebbe sopravvissuto dell’odierna classe partitica. Una crisi economica di eccezionale violenza sta risvegliando lo spirito ribellistico della popolazione che non ci sta a morire senza combattere, ad annegare senza aver trascinato con sé coloro che ritiene responsabili del disastro. La storia lo insegna, è nei momenti di maggiore crisi del pactum societatis tra il cittadino e lo Stato che si manifestano i prodromi di un cambiamento traumatico, talvolta rivoluzionario, all’interno delle istituzioni pubbliche o a danno delle istituzioni stesse.

Oggi, per i capi dei partiti è possibile condurre una campagna elettorale sfruttando la demagogia come surrogato tossico del processo democratico nonché i tatticismi della politica politicante. Domani, una porzione consistente di ceto medio ridotta in povertà, che incrocia le medesime istanze delle fasce emarginate dei non abbienti – nell’analisi marxiana dell’organizzazione sociale definite sottoproletarie, perché prive di una coscienza di classe – come potrebbe accettare di vedersi rappresentata dagli stessi che si sono resi corresponsabili del disastro? Sarebbero tutti spazzati via. Forse soltanto Giorgia Meloni sopravvivrebbe nelle urne potendo recare a propria discolpa il fatto di essere stata all’opposizione di tutti i Governi-ammucchiata succedutisi nell’arco della legislatura appena conclusa. Mentre un Gianluigi Paragone, campione dell’antisistema, porterebbe la sua micro-formazione Italexit in doppia cifra. Si obietterà: sono ipotesi campate in aria, non suffragate da alcun elemento di concretezza. In realtà, non è così. Qualche indizio su come si sarebbe evoluto lo scenario politico, se non si fosse votato subito, c’è.

Gli opinionisti politici in genere concordano nell’asserire che la Sicilia sia il laboratorio sperimentale per determinare i futuri assetti nazionali. Ammettiamo che sia vero. Non però questa volta, per la contemporaneità degli eventi elettorali: nell’isola, la prossima domenica, si voterà per il rinnovo del Parlamento e per l’elezione del nuovo Governatore regionale. La sovrapposizione ha comportato che si distogliesse l’attenzione da ciò che lì si sta muovendo. È quasi passato inosservato un dato che gli ultimi sondaggi pubblicabili hanno evidenziato. Nelle intenzioni di voto per le Regionali siciliane, alle spalle del favorito Renato Schifani, candidato del centrodestra, non c’è Caterina Chinnici, bandiera del centrosinistra, come sarebbe stato naturale aspettarsi, ma un sorprendente Cateno De Luca. Vi domanderete: chi è Cateno De Luca? È l’ex-sindaco di Messina che ha deciso di sfidare in solitario il sistema di potere isolano. “Scateno” – pare che così lo chiamino sull’isola – non è un populista quanto piuttosto un tribuno della plebe. L’ultimo sondaggio noto, svolto da Swg, lo dava secondo in una forchetta compresa tra il 26/30 per cento dei voti, a un’incollatura dal primo, Renato Schifani, quotato tra il 33 e il 37 per cento. Viste le indubbie capacità a stare nelle istituzioni e a padroneggiare la macchina amministrativa, De Luca incarna il paradigma dell’uomo nuovo nel tempo storico delle società post-ideologiche. Lui può conquistare un consenso diffuso e trasversale presso un elettorato stanco di assistere alle lotte intestine tra politici e partiti del tutto autoreferenziali, deciso ad affidarsi alla sua capacità di tradurre efficacemente le istanze della popolazione in azione di Governo del territorio. Sarà interessante osservare dove l’outsider siciliano fisserà l’asticella del consenso.

Quel dato ci fornirà la misura del paradosso: se si fosse votato in primavera, quante possibilità un emulo di Cateno De Luca in versione nazionale avrebbe avuto di incenerire la vecchia politica e di conquistare il Paese? Ma la sintassi della Storia non ammette il periodo ipotetico. È grazie a questo limite oggettivo imposto dal reale dell’hic et nunc, il qui e ora, se i vari Enrico Letta, Matteo Renzi, Carlo Calenda, Mara Carfagna hanno una chance per restare in gioco. Costoro dovrebbero accendere un cero al santo protettore degli avversari che si sono caricati l’onere di “licenziare” Mario Draghi. Quel rifiuto a proseguire la fallimentare esperienza di Governo con l’ex capo della Banca centrale europea forse salverà l’Italia. Di certo, la prossima domenica salverà loro dall’estinzione.


di Cristofaro Sola