Il campo dei santi e la città diletta

Le Amministrative ci hanno consegnato un secondo verdetto, dopo quello sul centrodestra, che riguarda le sorti del “campo largo” del centrosinistra. Ed è una sentenza di condanna. Siamo tuttavia in una società libera per cui Enrico Letta e il Partito Democratico hanno tutto il diritto di coltivare le loro utopie. Anche se la realtà va da un’altra parte. Il “campo largo” pensato dal segretario piddino come la realizzazione del campo dei santi di cui parla l’apostolo Giovanni nell’Apocalisse non è e non sarà l’approdo dei progressisti alla Terra promessa. Per alcune ragioni. La prima. Un progetto per svilupparsi deve reggere su basi solide. Qualitative e numeriche. Ora, il nucleo fondante prevede il coinvolgimento paritario del Partito Democratico e del Movimento Cinque Stelle. Ma, dati alla mano, ciò non è più possibile. Perché, nelle urne, la creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio è degradata a ectoplasma.

Il partito guidato da Giuseppe Conte è in crisi di vocazioni al punto che ha faticato a presentare proprie liste nei Comuni chiamati al voto. Dove lo ha fatto ha ottenuto percentuali di consenso mediamente contenute all’interno di una forchetta del 2-4 per cento. Con cadute impressionanti in territori chiave della storia grillina. A Genova, città natale del Movimento e del suo fondatore, il 4,40 per cento; a Catanzaro, terra simbolo del profondo Sud, in cui appena nel 2019 alle Europee aveva raccolto il 28,23 per cento, la scorsa domenica il Movimento ha messo insieme il 2,77 per cento dei voti. E c’è stata la “Caporetto” nell’eroica Parma che, nel 2012, aveva eletto Federico Pizzarotti primo sindaco pentastellato di città capoluogo di provincia in Italia e assegnato il 19,90 per cento alla lista grillina. A questa tornata amministrativa nella città emiliana il Cinque Stelle non è riuscito a presentare una lista di candidati.

Smontata la menzogna dei sondaggi-soufflé, che fino a ieri l’altro davano Conte e i suoi sodali a percentuali improbabili per non dire impossibili, il capo dei “dem” si ritrova tra le mani una bella gatta da pelare: come fare a costruire una casa comune con un socio che si è dissolto? E come se non bastasse, l’ectoplasma litiga al suo interno. Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, l’un contro l’altro armato. Tra i due cominciano a volare stracci accuratamente intinti nel liquame. Ma non si tratta di guerra tra titani quanto piuttosto lite di cortile tra zelig. Cioè, tra due persone prive di costrutto politico e ideale ma che, pur di sopravvivere al potere, modificano le proprie identità in rispondenza alle persone e alle situazioni circostanti. Praticamente, due mutanti. I rumors dai “Palazzi” romani sussurrano di una scissione alle porte. Potrebbe verificarsi che Luigi Di Maio abbandoni la nave che affonda e, aiutato da pochi fedelissimi, si metta a remare in cerca di salvezza su una scialuppa propria. Ma, come accade per i microrganismi non percepibili all’occhio umano, l’opinione pubblica neppure se ne accorgerà. Ciononostante, gli ex-grillini continuano a rappresentare la maggiore forza in Parlamento. Condizionano l’azione del Governo e, a caduta, la vita degli italiani pur rappresentandone una porzione infinitesima rispetto a quella che, nel 2018, li ha mandati in Parlamento.

Una situazione surreale che ha un responsabile, con tanto di nome e cognome: Sergio Mattarella. Il Capo dello Stato si è ostinato a difendere lo status quo, che ha favorito il ritorno al potere del Pd, decidendo di non esercitare le prerogative che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica in ordine allo scioglimento anticipato della legislatura. Sarebbe stato suo dovere restituire agli italiani il diritto di valutare se confermare o meno la fiducia a un partito che palesemente ne aveva carpito la buona fede presentandosi alle politiche nel 2018 con un impianto programmatico totalmente ripudiato una volta approdato al Governo della nazione.

Ma questo è il passato sul quale non vale rimuginare. Per la sinistra, resta il presente e un futuro immediato da costruire a propria immagine. La seconda. C’è un’area di sinistra moderata che si paluda con espressioni alte del tipo: socialismo illuminato e riformismo liberale. Non stiamo parlando dei fratelli Enrico e Carlo Rosselli ma di Carlo Calenda e di Matteo Renzi. Lasciatecelo dire: quei due sono incredibili. Hanno racimolato in giro per l’Italia qualche voto, eppure parlano come se avessero conquistato il consenso della maggioranza del Paese. A sentirli, la domanda sorge spontanea: ci fanno o ci sono? Con discutibile sicumera hanno messo alle strette il segretario-architetto del “campo largo”, Enrico Letta. O con noi o con i grillini, è il tenore dell’aut-aut. Che tradotto nel linguaggio corrente significa: il Pd intende incorporare, insieme alla dirigenza ex-grillina, l’armamentario populista dei Cinque Stelle, dal reddito di cittadinanza al boicottaggio dell’estrazione casalinga degli idrocarburi, passando per la lotta allo sviluppo industriale del Paese e per la transizione ecologica nell’ottica della decrescita felice?

Nel caso di risposta affermativa, i due andrebbero a bussare alla porta del centrodestra non senza aver posto pregiudizialmente i diktat su chi debba contare nella coalizione opposta al centrosinistra e chi invece, a causa della sua ipotizzata impresentabilità, debba restare alla finestra a guardare loro decidere. E magari applaudire. Effettivamente, nell’universo virtuale delle parole che creano armonie musicali ma non atti concreti, i renziani e gli “azionisti” di Calenda la raccontano meglio dei grillini. Peccato, però, che quando si tratta di passare dalle chiacchiere alla realtà, fanno le medesime cose che fanno il Pd e i Cinque Stelle. Votano i provvedimenti del Governo; obbediscono alle tirate d’orecchi del padrone di casa, Mario Draghi; per il futuro desiderano che tutto resti com’è oggi. E rivolgono agli avversari, con i quali domani potrebbero essere costretti a coabitare nella maggioranza parlamentare, i medesimi insulti. Soltanto con diversa eleganza e sottigliezza. Questi due campioni della politica politicante non dovrebbero preoccupare nessuno, se non fosse per il fatto che i loro ragionamenti insidiosi potrebbero fare breccia nel ventre molle del centrodestra, costituito dalla frazione centrista della coalizione. I due, infatti, pensano di fare risorgere, a trent’anni dalla sua scomparsa, un centro politico autonomo dalla destra e dalla sinistra e vorrebbero che Forza Italia e i cespugli moderati fossero della partita. Idea avventurista, tuttavia legittima. Come legittima è la possibilità che qualche anima bella, oggi albergata nel centrodestra, li prenda sul serio. Attenti però alla fregatura che si cela dietro a quella che sembra un’operazione squisitamente politico-culturale. Oggi i due si dicono equidistanti dalla destra e dalla sinistra perché aspirano a catturare elettorato al di fuori del perimetro del centrosinistra. Salvo, il giorno dopo la chiusura delle urne, gettare la maschera e rivelare la vera identità di mosche cocchiere della sinistra. Il centrodestra sia vigile di fronte al palesarsi dell’ennesima truffa ai danni dell’elettorato. Ne abbiamo visti fin troppi di politici che si sono fatti eleggere con i voti del popolo di destra e un minuto dopo hanno traslocato nel campo avversario. Sarebbe corretto e leale che costoro, i tentennanti, dichiarassero prima e non dopo il rinnovo del mandato parlamentare di nutrire una qualche idiosincrasia nell’essere associati, nell’immaginario collettivo, a persone che si professano liberal-conservatrici, nazionaliste, anti-progressiste. Ma correttezza e lealtà sono parole sconosciute al lessico della politica del nostro tempo storico.

Se questo è il quadro, Enrico Letta dovrà rassegnarsi perché il suo non sarà mai il “campo dei santi” del progressismo. Semmai somiglierà, anzi già adesso somiglia, al “campo del vasaio” della narrazione neotestamentaria. Stavolta però non di letteratura giovannea trattasi ma del vangelo di Matteo. Appunto, Matteo. Sarà un caso?

Aggiornato il 18 giugno 2022 alle ore 09:12