Silvio, non mollare

La convinzione che Silvio Berlusconi abbia non il diritto ma il dovere di andare fino in fondo nella corsa per il Quirinale non discende dalla cieca fede (che non c’è) nel personaggio; neanche dall’idea che la presidenza della Repubblica possa essere un Oscar alla carriera per uno degli uomini politici più longevi ancora in attività. E che neppure debba fungere da risarcimento postumo per il maltrattamento giudiziario somministrato all’uomo Berlusconi nell’ultimo quarto di secolo. Il “Cav” ha incarnato l’essenza di una destra e di un centro politico riunificati sotto lo stesso cielo, impegnati a ricercare un comune denominatore programmatico: dalle espressioni moderate, riformiste, liberali a quelle conservatrici, nazionaliste, repubblicane, monarchiche, laiche, cattoliche, centraliste e federaliste.

L’invenzione berlusconiana della formula “centrodestra” ha offerto a una vasta area d’opinione connotata ideologicamente di essere parte nel meccanismo bipolare del sistema maggioritario e ha conferito sostanza di progetto politico a una visione del mondo e del futuro del Paese. Nella storia repubblicana c’è stato un prima di Berlusconi e un “grazie a” Berlusconi. Nel “prima”, la parola destra suscitava disagio solo a pronunciarla. I partiti della Prima Repubblica si erano inventati l’espressione idiomatica “arco costituzionale” per tenere fuori dalla dialettica democratica il Movimento Sociale italiano. Nel linguaggio comune, “destra” era sinonimo di nostalgia per gli anni del Ventennio fascista. Lo sdoganamento di quell’area ancorata ai valori del passato, propiziato dal Berlusconi politico, ha consentito a una parte significativa del popolo italiano di sentirsi legittimata nel concorso al consolidamento del valore supremo della libertà nel nostro Paese. E in Europa. Un’impresa titanica che, tuttavia, non ha centrato l’obiettivo della definitiva pacificazione della società italiana.

La lacerazione prodotta dalla Guerra civile, deflagrata all’interno del conflitto mondiale, tra il 1943 e il 1945, non è stata sanata a causa dell’ostinazione della sinistra a sfruttare contro i possibili avversari la retorica dell’antifascismo militante. Nella comunicazione propagandistica dell’area vetero-comunista, a cui ha fatto sponda il popolarismo dossettiano, Berlusconi è stato rappresentato come il “Cavaliere nero”. C’è voluto tempo perché l’opinione pubblica si accorgesse del portato demagogico degli attacchi personali al fondatore del centrodestra. Il dato, tuttavia, mai ammesso dal fronte ex-comunista, riciclatosi post-caduta del muro di Berlino sotto le insegne del progressismo, ha riguardato l’attitudine di Berlusconi d’intercettare le angosce, le istanze di cambiamento e le speranze della maggioranza degli italiani. Una sinistra incapace d’interagire con i bisogni reali della gente, in particolare quella appartenente al ceto medio, si è negata al libero e leale confronto democratico preferendo arroccarsi in una fortezza d’odio, alimentata da furori giustizialisti, contro il nemico “ontologico” giudicato inferiore sotto il profilo antropologico, e non soltanto etico.

Tanto livore ha determinato negli avversari del centrodestra il convincimento che il nemico dovesse essere abbattuto con qualsiasi mezzo e che, allo scopo, anche le regole non scritte, le quali disciplinano il corretto funzionamento della dialettica democratica fondata sul principio dell’alternanza nella scelta delle figure istituzionali chiamate a rappresentare l’unità del Paese, dovessero essere sospese. Oggi, dopo un quarto di secolo, i numeri elettorali dicono che il centrodestra gode di un vantaggio sullo schieramento opposto. Sarebbe finalmente giunto il momento di un grande atto di responsabilità della sinistra nel riconoscere alla destra il diritto a esprimere un proprio nome per il Colle e di votarlo insieme, a larghissima maggioranza. Sarebbe un atto di riconciliazione e di maturità dei partiti speso per il bene del Paese e della stessa classe politica. Ma ciò non sarà possibile, perché la sinistra non intende rinunciare alle sue pretese egemoniche. I leader del centrodestra, impegnati nella ricerca di “Piani B” per surrogare la candidatura di Berlusconi, devono esserne consapevoli. Il fatto stesso che sia stato posto un veto sul vecchio leone rende inevitabile la conta nelle urne presidenziali. Il centrodestra deve affrontare questa battaglia e non tirarsi indietro.

Qualcuno obietterà: così ci si va a schiantare, perché i numeri per spuntarla non ci sono. A parte il fatto che con un Parlamento balcanizzato come quello attuale nessun capobastone può giurare di controllare fino all’ultimo uomo (o donna) le sue truppe, c’è un discorso di principio da fare. Le battaglie non si combattono solo quando si ha la certezza di vincerle. La storia insegna che vi sono stati conflitti combattuti solo perché fosse giusto farlo. Si può perdere, d’accordo. Ma ciò che vale, quando non si vince, è il modo in cui si perde. Già, perché un conto è cadere con le armi in pugno, infliggendo tali perdite al nemico da vanificarne la vittoria, altro invece è darsela a gambe al primo suono di corno dell’esercito avversario. Come le sconfitte onorevoli, anche le disfatte generano conseguenze. Lo ricordiamo ai giovani virgulti che rappresentano i partiti del centrodestra: costringere Berlusconi al passo indietro per piegarsi a votare un personaggio d’area indicato dal Partito Democratico o che abbia avuto legami nel passato con il centrosinistra è una resa senza condizioni al nemico, che determinerà un attimo dopo la dissoluzione del centrodestra.

Abbandonato Berlusconi, non credano Matteo Salvini e Giorgia Meloni che si possa ricominciare a fare progetti di coalizione come se nulla fosse accaduto. Ognuno, a cominciare dagli irrequieti dirigenti di Forza Italia che ambiscono a svincolarsi da qualsiasi patto di fedeltà stretto con gli alleati, cercherà di mettersi in proprio, magari col favore di una legge elettorale riformata in senso proporzionalistico. Ma, senza la componente riformista e liberale, il centrodestra non ha alcuna possibilità di prevalere alle prossime elezioni. Sarà un rompete-le-righe che chiuderà malamente una storia trentennale che meriterebbe più felice epilogo. Al contrario, restare compatti sul nome di Berlusconi, scrutinio dopo scrutinio, potrebbe provocare la liquefazione di quel fronte di cartapesta che è oggi il centrosinistra allargato ai Cinque Stelle. Bisogna dirlo chiaro: se il Parlamento dovesse impantanarsi per settimane sull’elezione del presidente della Repubblica, la colpa non sarebbe dell’ostinazione di Silvio Berlusconi a non levarsi di torno, ma della sinistra che pretende con arroganza di comandare anche quando non ha i numeri per farlo.

Se la vogliamo raccontare tutta, il vulnus democratico non è il vecchio leone di Arcore ma la presenza massiccia in Parlamento dei membri di quel partito-truffa che è il Cinque Stelle. I pentastellati hanno tradito e frodato i propri elettori ma stanno ancora lì a prendere lo stipendio in Parlamento e a decidere del futuro della Repubblica. Non pretendiamo di convincere chicchessia, né di avere titolo per lanciare appelli, ma un consiglio a qualcuno che ci ha accompagnato negli ultimi trent’anni e nel quale abbiamo creduto ci sia consentito ugualmente di offrirlo. Silvio, non mollare.

Aggiornato il 24 gennaio 2022 alle ore 09:33