La sindrome di Stoccolma

La partita per il Quirinale è cominciata. Adesso le cheerleader dei diversi schieramenti devono lasciare il campo alle giocate che contano. Il fischio d’inizio l’ha dato Silvio Berlusconi facendo trapelare la notizia che Forza Italia, nel caso di elezione al Colle di Mario Draghi, si sfilerà da qualsiasi altra maggioranza larga a sostegno di un nuovo Governo. Tradotto: se Draghi va al Quirinale si torna alle urne. La mossa berlusconiana ha gettato nel panico i pentastellati e mandato in tilt il Partito Democratico il cui segretario, Enrico Letta, sta tentando l’impossibile per evitare che la spunti un esponente del centrodestra. Mossa azzeccata, dunque, quella di Berlusconi se non fosse per il rischio di provocare qualche danno collaterale. Anche a destra, infatti, non manca una certa dose di incertezza nel tenere la barra dritta sulla rotta da seguire. Ieri l’altro, Matteo Salvini ha provato a smarcarsi dal disegno tattico tracciato dal vecchio leone di Arcore dichiarando urbi et orbi che, anche se dovesse venire meno la figura di Mario Draghi a Palazzo Chigi, la Lega continuerebbe a sostenere un Esecutivo di unità nazionale fino alla fine della legislatura. Dichiarazione che ha mandato in brodo di giuggiole la pletora di opinionisti-megafono del Partito Democratico e dintorni. La remota possibilità che Salvini possa scaricare Berlusconi li ha rianimati.

Ora, a questo mondo tutto è possibile, anche che il leader in pectore della coalizione vincente si dia una violenta bastonata sulle parti intime, nella masochistica illusione di compiacere il proprio carnefice. Gli psicologi la chiamano sindrome di Stoccolma. E nella storia della Seconda Repubblica abbiamo visto all’opera in diverse circostanze, e sempre a senso unico, tale patologia che induce comportamenti autolesionisti. È accaduto che esponenti del centrodestra, eletti per contrastare la sinistra, si siano innamorati dell’avversario che li disprezza e, fingendosi astuti, a lui si siano dati come vergini sacrificali condotte nell’harem di un virile sultano. La lista è lunga. Da Clemente Mastella, alla coppia Pier Ferdinando Casini-Marco Follini, a Gianfranco Fini, all’etereo Angelino Alfano, fino al pragmatico e godereccio Denis Verdini, passando per un’interminabile teoria di vestali un tempo devote custodi del focolare berlusconiano fino all’alitare del primo spiffero che ha cambiato la direzione del vento. D’altro canto, se al centrosinistra è riuscita la mirabile impresa di restare quasi ininterrottamente al potere negli ultimi undici anni pur perdendo regolarmente le elezioni, il merito o la colpa è di coloro che da destra sono andati in soccorso degli sconfitti consentendogli di prendersi il banco.

Matteo Salvini vuole iscriversi d’ufficio a questo non encomiabile parterre? È da escludere, ascoltata la netta presa di posizione salviniana pro-Berlusconi al Colle, diffusa ieri. Piuttosto, l’uscita apparentemente improvvida del segretario leghista andrebbe letta in controluce per scorgerne i segni di un disagio represso. Il “Capitano” ha un problema: il valore aggiunto del suo carisma sta declinando. Al momento, sembra somigliare al classico vaso di coccio circondato da vasi di ferro. Giorgia Meloni gli sta facendo una spietata concorrenza per la leadership del centrodestra; la coesistenza della Lega al Governo con gli opposti inconciliabili, sebbene giustificata dalla responsabilità verso la nazione nella sua ora più buia, lo sta logorando essendo lui uno spirito animale maggiormente a suo agio con la vis polemica del tribuno che con i passi felpati dei moderati governativi; il ritorno di Silvio Berlusconi, sempre più determinato a correre per il Colle, gli ha tolto spazio di manovra; i “no” ripetuti del Partito Democratico a qualsiasi soluzione che preveda una figura di destra al Quirinale ne sta frustrando l’ambizione di essere il kingmaker del prossimo presidente della Repubblica. Ma i suoi guai non vengono soltanto dall’esterno: tra i suoi tira aria di fronda.

L’opposizione interna di Giancarlo Giorgetti, che lavora sottotraccia per fare della Lega 3.0 il braccio armato di Mario Draghi in politica, lo ha di fatto paralizzato nei suoi slanci sovranisti, obbligandolo in ripetute occasioni a imbarazzanti retromarce. Da qui il tentativo di pescare il jolly per mettere in scacco gli alleati e la sinistra. La parte del discorso di ieri l’altro, su cui gli opinionisti al servizio del Pd hanno glissato, ha riguardato la proposta di un Governo senza Mario Draghi ma sostenuto da un patto di fine legislatura e garantito dalla presenza nell’Esecutivo di tutti i segretari dei partiti presenti nella maggioranza. Un ballon d’essai repentinamente rispedito al mittente da parte degli interessati. Per quanto umanamente comprensibili le sue difficoltà, Matteo Salvini deve farsene una ragione: la soluzione ampia per il Quirinale, con la sinistra e i Cinque Stelle, che passi per il siluramento di Berlusconi, non è percorribile. Eppure, lui dovrebbe sapere che il vecchio leone di Arcore è un combattente abituato a giocarsela fino in fondo, anche quando tutti intorno lo danno per spacciato. Il “Cav” è stato il primo a capire che questa volta la partita del Quirinale è riservata al centrodestra con la partecipazione di una parte del Gruppo misto e con un ruolo di contorno assegnato alla pattuglia renziana di Italia Viva. É in tale contesto che Berlusconi muove per la vittoria.

Numeri alla mano la sinistra è fuori, a meno che qualcuno, colpito dalla sindrome di Stoccolma, non la riporti in partita. Si fa un gran vociare sul fatto che il centrodestra non abbia i voti sufficienti per eleggere il suo candidato. In effetti, mancherebbero all’appello poco più di 50 Grandi elettori per raggiungere la maggioranza assoluta prevista dal quarto scrutinio in poi. Proviamo a rovesciare il ragionamento. Silvio Berlusconi gode del consenso del 90 per cento dei votanti che occorrono per raggiungere la maggioranza assoluta. Perché mai un candidato tanto quotato dovrebbe abbandonare il campo ancor prima di averci provato? Oggi è previsto un vertice tra i leader del centrodestra per fare il punto sulla partita presidenziale. Siamo facili profeti nel prevedere che si concluderà con un rinnovato appoggio corale al vecchio leone: non potrebbe essere altrimenti. Berlusconi dirà ai presenti: sto facendo la conta dei voti che arriveranno da fuori la coalizione, lasciatemi lavorare. Il che significa: appuntamento al 27 gennaio quando, consumate infruttuosamente le prime tre sedute elettorali per le quali la richiesta maggioranza di due terzi dell’assemblea per eleggere il presidente della Repubblica rappresenta un’asticella troppo alta perché vi siano sorprese, si comincerà a fare sul serio con la quarta votazione, quando basteranno 505 voti per essere eletti. Non avverrà al primo colpo, ma se i consensi ottenuti da Berlusconi supereranno il numero virtuale di quelli asseverati come provenienti dall’area di centrodestra, il vecchio leone dirà ai suoi: andiamo avanti recuperando voto su voto fino al traguardo.

Ci vorrà tempo e il susseguirsi delle votazioni impegnerà più a lungo del previsto i Grandi elettori? E dov’è il problema quando di mezzo c’è da fare la storia? Parigi varrà bene una messa. E oggi per i tanti italiani, stufi di stare sotto il giogo della sinistra, Berlusconi al Quirinale è come il trono di Francia per Enrico IV

Aggiornato il 17 gennaio 2022 alle ore 09:29